Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Quando in un’area politico-economica come l’Eurozona il tasso di disoccupazione generale si aggira attorno al 10 per cento e quello della disoccupazione giovanile sta al 21, e in quell’area arrivano 1 milione di immigrati all’anno, per i tre quarti giovani maschi in cerca di prosperità, è normale che qualcuno pensi a come fare per arrestare o almeno ridurre il flusso. Perché è vero che metà di esso dipende da guerre e guerriglie mediorientali e africane, ma l’altra metà è di natura strutturale: la popolazione dell’Africa è destinata ad aumentare dagli attuali 1,2 miliardi di abitanti a 2,5 nel 2050. E se l’Africa attuale ha prodotto centinaia di migliaia di migranti nonostante tassi di crescita del Pil superiori al 5 per cento dal 2009 fino all’anno scorso, figuriamoci cosa succederà se la crescita scenderà, come è successo nel 2015 con un modesto più 3 per cento rispetto all’anno precedente.
Le capitali dell’Eurozona rischiano di assomigliare in un futuro non troppo lontano alle grandi metropoli africane, dove il centro direzionale e i quartieri benestanti sono circondati da distese di baraccopoli senza speranza. Per questo e per ragioni più ravvicinate (il peso della crisi migratoria sui risultati delle elezioni) dall’Europa e dall’Italia in particolare, dove il tasso di disoccupazione giovanile è del 39 per cento, arrivano proposte per aiutare gli aspiranti emigranti a casa loro: molti (ultimo in ordine di tempo il cardinale Scola) evocano “un piano Marshall per l’Africa”, il governo italiano è entrato nei dettagli presentando il Migration compact del valore di 500 milioni di euro per investimenti nei paesi di origine e di transito dei migranti africani. Si tratta di capire dove si andranno a prendere i soldi, dopo il rifiuto tedesco di emettere eurobond a questo fine.
L’Africa è al centro di vasti programmi di aiuti sin dal 1960, con risultati scarsi e difficili da paragonare con quelli del vero piano Marshall, che fra il 1948 e il 1951 riversò sull’Europa occidentale 13 miliardi di dollari, pari a 130 miliardi di oggi. L’Africa nera fra il 1960 e il 2010 avrebbe ricevuto, secondo alcune stime, 300 miliardi di dollari in forma di Aiuti allo sviluppo (Aps). Perché il piano Marshall funzionò e l’Aps all’Africa no? Padre Piero Gheddo l’ha spiegato mille volte: «Perché i popoli europei, nonostante nazismo e fascismo, erano preparati da tutta la loro storia, educazione, cultura e religione, a far fruttare il denaro lavorando e fondando nuove industrie; i popoli africani, per la loro storia, cultura e religione tradizionale, semplicemente non erano stati preparati a questo dalla colonizzazione, durata però solo circa 60-70 anni, con due guerre mondiali in mezzo! La radice del sottosviluppo africano è storico-educativa-culturale-religiosa». Su questa radice antropologica si è innescata la corruzione a livello governativo: l’Aps è servito ad arricchire le élites locali e a finanziare le campagne elettorali dei politici europei. La lotta alla corruzione non funzionerà senza un’autentica formazione umana: l’Africa ha bisogno anzitutto di più famiglie cristiane e di più scuole cattoliche.
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