Perché i veri riformisti sono i conservatori
Ha ragioni da vendere Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera del 1 agosto) quando dice che un conservatore, con buona pace dei cliché tuttora in voga, non è contro il cambiamento in quanto tale ma contro «il cambiamento come lo intendono i progressisti… Non vuol dire insomma, essere comunque contro, bensì fare il contrario».
Non sappiamo se Galli della Loggia pensasse a lui ma quel «fare il contrario» anziché «essere comunque contro» riecheggia Joseph De Maistre quando diceva che «una controrivoluzione non è una rivoluzione di segno contrario ma il contrario della rivoluzione». In effetti, come si vedrà a breve, ogni vero conservatore non solo non ha nulla a che vedere con la posizione del reazionario, ma – di nuovo, contro tutti i luoghi comuni – dire conservatorismo significa dire vero riformismo. E viceversa: ogni vero riformismo è conservatore.
Ne consegue che la scelta che gli elettori saranno chiamati a fare il 25 settembre non è, non sarà tra una coalizione di centrosinistra e una di centrodestra o, più semplicemente, tra Pd e Fdi; la scelta vera sarà primariamente tra due opposte visioni dell’uomo e della società (da cui discendono a loro volta programmi e contenuti politici): quella progressista falsamente riformatrice e quella conservatrice che rappresenta il vero riformismo.
Una contraddizione solo apparente
Può sembrare paradossale e contraddittorio che si parli di conservatorismo come sinonimo di riformismo. A ben vedere la contraddizione è solo apparente. Certo, tutto sta nel capire cosa si intente per riformismo. In estrema sintesi, da un punto di vista conservatore quella riformista è la prospettiva di un rinnovamento nella, non contro né oltre, la tradizione. Indica cioè un movimento, una dinamica che “aggiorna”, senza per questo stravolgerli, i valori e i princìpi “eterni” incarnandoli alla luce delle mutevoli situazioni storiche.
È insomma un riformismo che non procede per strappi, che non insegue il mito di un progresso come costante cambiamento partendo dalla (falsa) idea che il nuovo è sempre meglio del vecchio. Al riformismo conservatore si addice meglio l’immagine evangelica dello scriba che, divenuto discepolo del regno dei cieli, sa trarre dal suo buon tesoro cose vecchie e cose nuove.
Laicità nella migliore delle accezioni
Per chiarire meglio quanto andiamo dicendo può non essere inutile soffermarsi seppur brevemente su quella che è stata la riflessione di Augusto Del Noce. Da essa emergerà anche come alla costruzione di una posizione realmente conservatrice sia essenziale l’ancoraggio all’antropologia e ai capisaldi della dottrina sociale della Chiesa. Di modo che una proposta politica di segno conservatore sarà sì “di destra”, ma di una destra moderata, centrista (equidistante cioè da ogni estremismo) e laica nella migliore delle accezioni, ossia non indifferente al fatto religioso nella vita pubblica.
Non solo: essa – tramite l’ancoraggio ai valori del cattolicesimo – sarà anche portatrice di una visione ultimamente liberale che potremmo riassumere nella formula dello “Stato minimo”, che cioè riconosce, promuove e difende la centralità della persona e della sua libertà (educativa, economica, eccetera) contro ogni statalismo (il cui retaggio, seppur in grado minore rispetto al passato, tuttora permane anche in Fratelli d’Italia) che pospone la persona allo Stato.
La “fedeltà creatrice” ai princìpi cristiani
Di fronte ad una società, come quella “opulenta” di cui aveva con lungimiranza “profetica” previsto gli esiti nichilistici quando ancora era agli albori, per Del Noce non vi era che un atteggiamento da assumere: quello della “risposta a sfida”. Esso voleva dire impegno culturale e, quindi, politico, per la “restaurazione dei valori”: contro l’esito catastrofico a cui è giunto il pensiero rivoluzionario, la sfida consisteva nella riproposizione del pensiero tradizionale ossia affermazione del primato dell’essere, dell’intuizione intellettuale e del valore ontologico del principio d’identità, lungo una linea di pensiero che partendo da Cartesio arriva a Rosmini, alternativa a quella Cartesio-Marx-Nietzsche che si è invece affermata.
Ma la riaffermazione dei valori tradizionali – valori che, è bene ribadirlo, a differenza di quanto sostiene Galli della Loggia non sono semplicemente “fatti storici” ma essendo ancorati alla Rivelazione cristiana hanno un connotato meta-storico (un esempio su tutti: i “princìpi non negoziabili” di ratzingeriana memoria) – non significa affatto restaurazione di una qualche forma di cristianità; lungi dall’essere nostalgico della vecchia alleanza fra Trono e Altare, Del Noce mirava piuttosto ad un Risorgimento cattolico, il che voleva dire recupero del cattolicesimo dentro e non contro la modernità. Risorgimento da intendersi, quindi, primariamente come categoria filosofica, secondo quel principio della “fedeltà creatrice” (che richiama la giobettiana “restaurazione creatrice”) che sarà un punto di riferimento costante nell’elaborazione della sua proposta filosofica, e la cui formulazione è da rinvenire nel saggio del 1945 Analisi del linguaggio.
Del Noce pone in apertura una domanda: «La posizione politica del cristiano dovrà essere conservatrice o rivoluzionaria?». Ed ecco la risposta:
«L’ideale della politica cristiana deve, a mio credere, prospettarsi come un’eterna (nel senso di mai esaurita; il cristiano è sempre in lotta) restaurazione dei princìpi (da non confondere con la “restaurazione dei fatti” propria della reazione) nel loro carattere eterno; come dissociazione dei princìpi eterni dalla loro realizzazione storica, sempre relativa ad una problematica storica data e in ciò inadeguata; e cioè come affermazione della trascendenza dei princìpi, della loro eternità per cui non si esauriscono in situazioni storiche, ma contengono un’indefinita virtuale possibilità di “nuovo”. La “fedeltà” del cristiano assume così un significato nuovo; non più fedeltà a fatti e a istituti storici, dunque spirito di passività e negazione critica; ma fedeltà a soprastorici princìpi, e perciò fedeltà creatrice, creatrice di soluzioni nuove alla problematica sempre nuova che l’esperienza storica offre».
La tradizione come organismo vivente
L’importanza di questo passaggio sta nel fatto che esso permette di chiarire la portata riformista di una posizione conservatrice. Non, appunto, un atteggiamento “museale”, di mera conservazione della tradizione, ma assunzione di una prospettiva secondo cui la tradizione è un organismo vivente – potremmo definirla living Tradition – che, pur immutata quanto ai contenuti, deve di volta in volta essere incarnata e calibrata per rispondere alle sfide sempre nuove che si hanno davanti. Come si vede, con buona pace di quanti lo marchiarono con lo stigma del reazionario (dando ovviamente per scontata, cosa che scontata non è affatto, la bontà dell’azione che innescherebbe la reazione, vista sempre come negativa) si tratta di una posizione sideralmente lontana da ogni prospettiva tanto rivoluzionaria quanto, appunto, reazionaria. E in tal senso è da intendersi come una posizione centrista.
A livello più strettamente politico, quella qui sommariamente tratteggiata è la proposta di un progetto politico sicuramente conservatore nel senso sopra specificato, ma al tempo stesso autenticamente democratico e liberale (e quindi antitotalitario) in quanto centrato sul rispetto della persona umana – e già qui è facile notare la distanza abissale che separa questa posizione da quella progressista che invece preferisce parlare di individui – e della sua libertà, che solo un regime democratico può garantire. Ma anche, lo accennavamo prima, un progetto conservatore squisitamente laico. Si noti: laico, non laicista. Il che vuol dire superare la concezione, questa sì laicista, secondo cui un partito aconfessionale debba necessariamente confinare la fede negli angusti anfratti della coscienza.
Il filosofo cattolico ebbe chiaro fin dall’inizio, come dato certo e indiscutibile, l’essenziale storicità della Rivelazione cristiana: il cristianesimo è un evento storico, non un’ideologia o un sistema di pensiero. Ed è proprio nella riduzione del fatto religioso a foro interno che egli vide il segno del cedimento di tanta parte della cultura cattolica a quell’idea di modernità che storicamente ha prevalso e che si è sviluppata lungo l’asse che da Cartesio passando per l’illuminismo e Marx arriva a Nietzsche. Con la duplice conseguenza della protestantizzazione di fatto del cattolicesimo, da un lato, e, dall’altro, della ricerca di chiavi interpretative della storia contemporanea altre rispetto a quella cattolica per poter essere ammessi nel consesso dei moderni muovendo da un ingiustificato complesso d’inferiorità (solo a titolo di esempio, è ascrivibile a tale concezione del rapporto fede-politica, tra gli altri, quel fenomeno dalle conseguenze devastanti a tutti i livelli che va sotto il nome di “cattocomunismo”).
Famiglia, vita, libertà
Ma se all’opposto si tiene ben presente la storicità del cristianesimo, ne consegue che questo non può non avere anche una traduzione politica, nel senso cioè di farsi “polis”, mondo, storia. È questo il motivo per cui chi scrive ha proposto una lettura della filosofia di Del Noce nei termini di una “metafisica civile”: essa si configura come una filosofia cristiana che implica e richiede una propria e personale riaffermazione del pensiero tradizionale in grado di tradursi, per sua natura, in una polis realmente degna dell’uomo.
Un punto dev’essere chiaro: muovendo da una prospettiva di rinnovata unità di fede e vita, è da escludere a priori ogni dialogo con chi è portatore di una visione antropologica e culturale, prima ancora che politica o che da quella discende, che sia in contrasto con la visione cristiana dell’uomo e della società, cristallizzata in quei princìpi tuttora non negoziabili che rappresentano l’asse portante della Dottrina sociale della Chiesa. Da questo punto di vista un siffatto soggetto politico di stampo conservatore e cristianamente ispirato si configura come un partito che metterà al centro (altro connotato dell’essere centrista) in tutti modi possibili i princìpi basilari della Dottrina sociale della Chiesa, ossia la promozione della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, la difesa della vita dal concepimento alla morte naturale e la libertà religiosa e di educazione.
La posta in gioco il 25 settembre
La posta in gioco il 25 settembre 2022 va ben oltre una normale competizione elettorale. Lo dicevamo all’inizio: lo scontro sarà tra due diverse e opposte visioni dell’uomo e della società. Di qua i progressisti, i quali propugnano una società – per usare un’espressione cara al compianto vescovo Luigi Negri – «che ha cancellato i valori fondamentali trasformando il desiderio in diritto e ha annichilito ogni spazio di dissenso», una società oltremodo contraddittoria perché predica democrazia e diritto ma in realtà il politicamente corretto in essa imperante l’ha resa una società di fatto totalitaria; di là ci sono i conservatori, ossia i veri riformisti, che al posto di un individuo che si vuole portatore di diritti assoluti mettono al centro la persona, cioè un essere-in-relazione, che oltre ai diritti ha anche dei doveri essendo appunto parte di un Noi. E che intendono conservare, e perciò stesso incarnare in forme sempre nuove, quei princìpi e quei valori eterni che hanno plasmato il meglio della civiltà, quella occidentale ed europea in particolare.
Poi naturalmente ci sono i temi specifici, che vanno declinati in proposte e contenuti programmatici concreti e, soprattutto, misurabili. E da questo punto di vista se vogliamo essere onesti la critica mossa da Galli della Loggia al programma di Fdi per la scuola e l’istruzione un qualche fondamento ce l’ha. Siamo altresì convinti che le proposte, sulla scuola e non solo, arriveranno. E in tempi rapidi, anche. Prima però c’è una scelta per così dire “a monte” che va fatta, ed è una scelta che non ammette esitazioni o tentennamenti. La Storia ci giudicherà.
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