Perché è importante che gli Usa abbiano riconosciuto il genocidio armeno
«Molti parlamenti, uno dopo l’altro, hanno cominciato a riconoscere il genocidio degli armeni: e ieri è stato il momento della Camera degli Stati Uniti. È un atto che diffonde una verità storica, non ha conseguenze pratiche: e vorrebbe aiutare il popolo turco ad affrontare finalmente questo immenso “scheletro nell’armadio” che avvelena il Paese e lo priva della sua stessa memoria». Ha scritto così, giovedì 30 ottobre, sul Corriere della Sera, la scrittrice italiana d’origine armena Antonia Arslan, commentando la decisione della Camera dei rappresentanti statunitensi di riconoscere come «”genocidio” lo sterminio di circa 1,2-1,5 milioni di armeni a opera dell’Impero Ottomano, tra il 1915 e il 1917 con una scia di sangue fino al 1922».
La rabbia turca
Come è noto, la Turchia non vuole riconoscere come “genocidio” ciò che accadde 100 anni fa ad opera dei giovani turchi sui cristiani armeni. Ad oggi sono una trentina i paesi (tra cui anche l’Italia e il Vaticano) ad averlo fatto. Una presa di posizione che innervosisca sempre molto la Turchia. Infatti, come prevedibile, Ankara ha subito protestato convocando l’ambasciatore americano e lasciando intendere che il presidente Recep Tayyip Erdogan potrebbe rifiutarsi di recarsi a Washington da Donald Trump il 13 novembre. Ancora oggi chi osa parlare di “genocidio armeno” può subire l’arresto e fino a due anni di carcere secondo l’articolo 301 del codice penale nazionale turco.
Il Grande Male
Tempi vi ha parlato in diverse occasioni del Metz Yeghern, il Grande Male, la carneficina cui furono sottoposti gli armeni tra il 1915 e il 1922. A partire dal 24 aprile 1915 furono arrestati e deportati gli esponenti delle élites armene di Costantinopoli, Smirne e Aleppo. Nei due anni successivi persero la vita un milione e mezzo di armeni a causa sia di massacri che di malattie e stenti dovuti alle condizioni in cui venivano spostati attraverso i territori dell’Impero.
Le ombre del popolo perduto
La “battaglia” per il riconoscimento del genocidio, come ha sempre spiegato Arslan, prosegue ancora oggi a causa del “negazionismo” turco. Come ha sempre scritto l’autrice della Masseria delle allodole sul Corriere,
«Negazionismo: non sono solo parole, sono atti ben precisi, calcolati e studiati per spargere sale su ferite appena rimarginate, per creare confusione in menti abitate dal ricordo di violenze inaudite che vengono minimizzate o negate, col preciso scopo di venire infine dimenticate. Per gli armeni, ci fu una logica perversa in questo meccanismo diabolico, che li schiacciò. Dopo il trattato di Losanna del 1923, con la complicità delle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale, la stessa parola “armeni” scomparve, le centinaia di testimonianze pubblicate fra il 1915 e il 1921 furono consegnate all’oblio, i monumenti sparsi nell’intera Anatolia distrutti, i nomi dei luoghi cambiati. Le ombre del popolo perduto vagavano invano per l’Armenia storica, nessuno le vedeva…».
La battuta di Hitler
Non solo. Come ha brillante dimostrato la studiosa americana Siobhan Nash Marshall nel suo I peccati dei padri. Negazionismo turco e genocidio armeno, i fatti del 1915 sono profondamente legati alla Shoah. L’esempio armeno colpì così profondamente Adolf Hitler tanto da indurlo a invadere la Polonia nella certezza che il mondo avrebbe tollerato e poi dimenticato: «Wer redet heute noch von der Vernichtung der Armenier?» (“Chi oggi parla ancora dello sterminio degli armeni?”, si chiedeva il Führer prima di passare all’azione). E non è un caso che il termine “genocidio” sia stata coniato dall’ebreo polacco Raphael Lemkin nel 1944.
Foto Ansa
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