Non è il riconoscimento internazionale dello Stato di Palestina il più grosso ostacolo a un accordo di pace definitivo fra israeliani e palestinesi in Medio Oriente. Le vere pietre di inciampo sono due: i 550 mila coloni ebrei che fra il 1967 ed oggi si sono insediati nei Territori occupati dall’esercito israeliano al termine della Guerra dei Sei giorni, e i 4,7 milioni di profughi palestinesi e discendenti della guerra del 1948 fra il nascente stato di Israele e i suoi vicini arabi. A fare problema non sono solo i numeri, ma la natura intima delle due questioni. Gli insediamenti israeliani nei Territori arabi si sono costantemente ingranditi dal ’67 ad oggi, con l’eccezione degli insediamenti nel Sinai rimossi nel 1982 dopo l’accordo di pace con l’Egitto e quelli nella Striscia di Gaza, unilateralmente smantellati nel 2005. Ma la somma totale dei coloni di Cisgiordania, Gerusalemme Est e alture del Golan oggi è praticamente il doppio di quella che era nel 1993, l’anno della Conferenza di Oslo e dell’inizio ufficiale del processo di pace.
Per alcuni anni militanti politici ed economisti marxisti hanno cercato di dimostrare che l’occupazione israeliana aveva motivazioni di economia politica: la necessità di sfruttare la manodopera e le risorse palestinesi per arricchire Israele con modalità colonialiste. Questa lettura dei fatti è venuta meno col tempo, man mano che i meri costi economici dell’occupazione e delle colonie sono stati analizzati. Secondo i calcoli di Shir Ever, analista israeliano dell’Alternative Information Center (un’organizzazione della sinistra radicale), gli insediamenti hanno fino ad oggi prodotto introiti per 8,5 miliardi di dollari, ma sono costati ben 97 miliardi di dollari fra sovvenzioni statali ai coloni (34,3 miliardi di dollari) e costi sostenuti per garantire la loro sicurezza (62,7 miliardi di dollari). Il costo netto dell’occupazione e della colonizzazione ammonterebbe dunque a 88,5 miliardi di dollari, e attualmente ammonterebbe a 6,3 miliardi di dollari all’anno. Nel corso del 2011 molte manifestazioni di protesta contro il logoramento delle condizioni materiali di vita e l’erosione del sistema di welfare statale hanno attraversato le città israeliane, ma raramente le sovvenzioni ai coloni e ai loro insediamenti hanno animato la polemica, benchè sia stato calcolato che in media un colono riceve 22.522 dollari del bilancio dello Stato, contro gli 11.087 dollari di chi colono non è. Eppure solo la minuscola sinistra radicale e una piccola parte del partito laburista evocano apertamente il tema di uno smantellamento totale o quasi delle colonie, e colpisce il fatto che gli strati più poveri della popolazione israeliana, che pure beneficerebbero di una ridistribuzione dei sussidi statali non più premiante per gli insediamenti, tendano a solidarizzare con le politiche in difesa delle colonie piuttosto che con quelle che le vorrebbero ridimensionare. E questo è ancora più sorprendente quando si considera il fatto che l’occupazione dei Territori ha favorito l’importazione di manodopera palestinese a buon mercato nel territorio metropolitano israeliano, con la conseguente flessione dei salari e la perdita di occasioni occupazionali per gli israeliani meno istruiti e meno ricchi.
I coloni, com’è noto, agiscono per lo più in base a motivazioni ideologiche e/o messianiche, in base alle quali i territori di insediamento non rappresenterebbero terre occupate, ma aree del Grande Israele giustamente riscattate al popolo ebraico. Questa non è però la visione della maggior parte della società e delle forze politiche israeliane, che fondano il loro aperto o velato consenso alla politica degli insediamenti sul più solido argomento della sicurezza di Israele, della quale le colonie sarebbero un importante bastione. Le colonie – dove vive non più del 7% della popolazione ebraica israeliana – servono non solo come un tampone che ritarderebbe gli attacchi degli eserciti convenzionali dei paesi arabi confinanti, o che renderebbe più difficile il contrabbando di lanciarazzi e altri armamenti coi quali i terroristi potrebbero colpire la parte più interna dello Stato di Israele, ma soprattutto come un asset strategico al tavolo dei negoziati che periodicamente viene riconvocato. Fintanto che il primo punto all’ordine del giorno di ogni trattativa coi palestinesi, bilaterale o multilaterale, sarà il congelamento degli insediamenti, e il numero due il loro smantellamento, e il numero tre gli scambi di territorio coi palestinesi che, nell’ipotesi di un accordo definitivo, permetterebbero agli israeliani di mantenerne alcuni, non arriverà sul tavolo quello che è il punto più scottante e inaccettabile per la parte israeliana: la questione del diritto al ritorno dei profughi palestinesi del 1948.
Lo stesso discorso vale per il Muro: un altro argomento di negoziato molto utile a tenere lontana la questione del ritorno dei profughi, perché il neonato Stato palestinese dovrà affrontarla prima di dedicarsi ad altri obiettivi. Gli israeliani, in buona sostanza, pensano che l’Anp abbia in mente una strategia in due atti, nella quale il primo è rappresentato dalla creazione di uno Stato palestinese nei territori di Cisgiordania e Gaza, e il secondo da una campagna politica internazionale per il ritorno dei profughi nel territorio di Israele, che a quel punto finirebbe per diventare uno stato bi-etnico e non più uno stato ebraico. Obbligare le cancellerie internazionali a concentrare i loro sforzi sulla questione degli insediamenti e del Muro ed evidenziare costantemente le esigenze di sicurezza che giustificano barriera difensiva e insediamenti nei Territori, sono parte integrante della strategia a lungo termine di Israele per difendere la propria sicurezza.