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Per uscire dalla crisi economica, bisogna leggere più Bibbia e meno Paul Krugman

L'economia di una paese va bene quando i cittadini si comportano bene. È una verità che il testo sacro dei cristiani insegna meglio di qualunque Nobel keynesiano

Giovanna Jacob
27/07/2015 - 2:00
Economia
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Caro direttore, se la Grecia piange, l’Italia non ride. È dal 2008 che la crisi economica devasta l’Italia ed è dal 2008 che i politici annunciano che la crisi sta finendo. Anche Matteo Renzi non perde occasione di annunciare che la crisi sta finendo e, proprio mentre stai per credergli, scopri che da gennaio a maggio 2015 il debito pubblico è aumentato di 83,3 miliardi di euro.

Che origine ha questa crisi e come se ne esce? A questa domanda, cento economisti danno cento risposte diverse, che rigurgitano di termini tecnici, percentuali, equazioni, linee che danzano fra ascisse e ordinate. Non potendo capire risposte tanto complicate, pensiamo che, se dobbiamo scegliere fra cento economisti, ci conviene scegliere quelli più rinomati. “Se un economista ha vinto il premio Nobel e scrive sul New York Times”, pensiamo noi, “deve per forza avere ragione”. E infatti, da alcuni anni a questa parte, ogni frase che Paul Krugman, vincitore del Nobel per l’economia, scrive sul New York Times viene citata da intellettuali e uomini della strada, da politici di destra e politici di sinistra, da neo-comunisti e da neo-fascisti, da atei a da cattolici come se fosse un versetto della Bibbia. Che cosa dice in sostanza Paul Krugman? Dice che la crisi del 2008 è stata provocata dal “liberismo selvaggio” e che per uscire dalla crisi bisogna applicare alla lettera le ricette di John Maynad Keynes. Per completezza d’informazione, ha pure detto che per fare ripartire l’economia ci vorrebbe una bella invasione aliena (l’ha detto, l’ha detto: qui il video).

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Per farla breve, oggi la teoria economica di John Maynard Keynes è considerata da tutti come la verità definitiva sull’economia. A chiunque provi a sollevare qualche dubbio, i professori e gli studenti delle facoltà di economia italiane (divenute da tempo campi di rieducazione al pensiero unico keynesiano, che ha preso il posto del pensiero unico marxista) sparano addosso una raffica di termini tecnici, percentuali, equazioni, linee che danzano fra ascisse e ordinate: “Ma che cosa ne vuoi capire? Ma stai zitto, ignorante!”. In sostanza, ci vogliono fare credere che, se non abbiamo una laurea in economia, non possiamo permetterci di criticare una sola parola uscita dalla bocca di uno che auspica la guerra dei mondi. D’altra parte, anche se prendessimo quella laurea e diventassimo perfino economisti, non ci farebbero proferir verbo contro il Verbo keynesiano. Per fare carriera nelle università, vincere il Nobel e scrivere sul New York Times devi dire che per stimolare l’economia bisogna provocare una qualsivoglia guerra non importa contro chi (vanno bene anche gli alieni), o almeno andare in giro a fracassare i vetri delle finestre (famoso suggerimento di Keynes).

Gli economisti fanno di tutto per occultare sotto una spessa coltre di termini tecnici, percentuali, equazioni, linee che danzano fra ascisse e ordinate una verità che dovrebbe essere evidente, almeno ai cristiani: l’andamento dell’economia di una nazione dipende dal comportamento morale della maggior parte dei suoi cittadini. Se la maggior parte si comporta bene, l’economia va bene; se si comporta male, va male. Le virtù producono prosperità, i vizi producono crisi economica (non è mai vero che i vizi privati diventano pubbliche virtù). Dunque per capire come si esce dalla crisi, dobbiamo capire la differenza fra le virtù e i vizi, fra il bene e il male. In una parola, dobbiamo smettere di leggere gli articoli di Krugman come fossero la Bibbia e dobbiamo cominciare a rileggere la vera Bibbia.

A leggerli bene, nel vecchio e il nuovo Testamento troviamo tantissimi insegnamenti morali che sono anche insegnamenti economici. Il primo insegnamento lo troviamo nella Genesi: «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane» (Gen 3,19). E san Paolo aggiunge: «Chi non vuole lavorare neppure mangi» (2 Ts 3,10). Giuseppe d’Egitto insegna che non basta lavorare e consumare il frutto del proprio lavoro: bisogna anche conservarne una parte in previsione dei tempi delle “vacche magre” (Gen 41,1-57). Oltretutto, a consumare subito tutti i beni che si hanno a disposizione, senza risparmiare nulla, si pecca di prodigalità, che è un vizio contrario ed uguale a quello dell’avarizia (cfr. Inferno VII, 16-66). Portando sé stesso alla rovina economica, il prodigo incallito in un certo senso si suicida: per questo Dante mette gli “scialacquatori” di ricchezze accanto ai suicidi, nel secondo girone del settimo cerchio (Inferno, Canto XII, vv. 109-129). In una parabola evangelica, un uomo ricco condanna il suo amministratore perché ha sperperato i suoi beni (Lc 16,1-13).

Ma se non bisogna peccare di prodigalità, non bisogna peccare neppure di avarizia. L’avaro è talmente attaccato ai beni materiali, ha talmente tanta paura di perderli, che li accumula all’infinito, senza mai né donarne agli altri né consumarli lui stesso (insomma, arriva a privare anche sé stesso dei suoi stessi beni). Se dunque non è lecito né sperperare tutti i beni né limitarsi ad accumularli, che cosa bisogna fare? Bisogna usarli per il bene di sé stessi e del prossimo e, se possibile, investirli in maniera produttiva. Nella parabola dei talenti, il servo cattivo nasconde sotto terra l’unico talento che gli è stato dato (in un certo senso è avaro), mentre il servo buono investe i suoi cinque talenti, guadagnandone altri cinque (Mt 25,14-30).

In due occasioni, Gesù parla di debiti e crediti. In una parabola troviamo un re che condona i debiti ai suoi servi (Mt 18,23-35), in un’altra troviamo un creditore che condona i debiti a due debitori (Lc 7,41-47). In maniera più esplicita, nel Padre Nostro il debito non saldato diventa quasi sinonimo di peccato. Se dunque è vero che i creditori possono anche “rimettere” i debiti, non saldare i debiti resta comunque un peccato. L’insegnamento economico che se ne trae è che indebitarsi va bene solo se si ha la certezza di potere restituire i soldi ai creditori. Contrarre più debiti di quanti si prevede di poterne ragionevolmente saldare non è mai lecito dal punto di vista morale.

In una famosa parabola, c’è un ricco (Epulone) che passa la vita a fare baldoria e c’è un povero coperto di piaghe (Lazzaro) che siede tutto il giorno alla sua porta (Lc 16,19-31). Il contrasto fra Epulone, che precipita all’inferno, e Lazzaro, che invece vola in paradiso, fa pensare a molti che la ricchezza in sé porti alla dannazione mentre la povertà in sé porti alla salvezza eterna. In realtà, Epulone va all’inferno non perché è ricco ma perché non usa bene le sue ricchezze: pensa solo a godersele, senza preoccuparsi di aiutare i bisognosi come Lazzaro e senza neppure pensare di investirle produttivamente, come il servo buono. D’altra parte non solo i ricchi ma ognuno è invitato a soccorrere i bisognosi in proporzione alle sue possibilità: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». (Mt 25,31-46).

Da nessuna parte nel Vangelo sta scritto che essere ricchi è una colpa. Gesù non ci parla solo di Epulone che gozzoviglia tutto il giorno e del ricco stolto che accumula beni in terra ma non in cielo (Lc 12,16-21). Ci parla anche di ricchi virtuosi che usano bene le loro ricchezze, creando anche “posti di lavoro”: il proprietario di una vigna, un frantoio e una torre, che assume dei vignaioli e poi manda dei servi a riscuotere (Mt 21,33-44) un padrone di casa che, quando parte per un viaggio, affida a ciascuno dei suoi servi un compito specifico (Mc 13,33-37), un padrone che affida dei soldi ai suoi servi (Mt 25,14-30), un padrone di casa che estrae dal suo tesoro “cose nuove e cose antiche” (Mt 13,51-52), il proprietario di una vigna che assume dei lavoratori (Mt 20,1-16), un padre che chiede ai suoi figli di andare a lavorare nella sua vigna (Mt 21,28-32), un padrone che ordina al servo di prendersi cura degli altri domestici (Mt 24,45-51), un uomo benestante che divide l’eredità fra i due figli (Lc 15,11-32), un uomo ricco che affida la gestione dei suoi beni ad un amministratore (Lc 16,1-13), un re che condona i debiti ai suoi servi (Mt 18,23-35), un creditore che condona i debiti a due debitori (Lc 7,41-47), un re che organizza un ricco banchetto di nozze per il figlio e manda a chiamare molti invitati (Mt 22,1-14).

D’altra parte, Gesù non sembra disprezzare né i beni di lusso né i soldi. Lui stesso si lascia massaggiare i piedi con un unguento molto costoso, scatenando la protesta di Giuda (Lc 7,36-50). Quando accoglie il figliol prodigo, il padre non bada a spese: fa ammazzare il vitello grasso (Lc 15,11-32). Neppure il re bada a spese per le nozze del figlio (Mt 22,1-14). Il regno dei cieli è paragonato al tesoro nascosto in un campo (Mt 13,44) e ad una perla di grande valore (Mt 13,45-46). I soldi sono talmente importanti che in una parabola il buon cristiano è paragonato al servo che ha saputo moltiplicarli (Mt 25,14-30), mentre in un’altra parabola il Padre è paragonato alla donna che si mette a cercare la moneta perduta (Lc 15,8-10).

Infine, i soldi sono talmente importanti che a falsificarli si fa peccato. È poco noto che per san Tommaso d’Aquino falsificare il denaro è peccato più grave che uccidere ed è la forma più grave di frode (ossia tradimento verso chi non si fida). Più grave di questo peccato, c’è solo il tradimento verso chi si fida, che è il peccato di Giuda. Seguendo san Tommaso, Dante Alighieri mette i falsari nella decima e ultima bolgia dell’ottavo cerchio (cfr. Inferno XXX), appena al di sopra del nono ed ultimo cerchio dell’inferno, dove sono puniti i traditori.

Riepilogando, la Bibbia insegna che c’è una relazione di causa-effetto fra lavorare e produrre cibo (Adamo è costretto a lavorare), che bisogna sempre risparmiare (le vacche non sono sempre grasse), che non bisogna mai sperperare le ricchezze (la prodigalità è peccato), che non bisogna limitarsi ad accumulare risparmio (l’avarizia è peccato) ma bisogna investirlo in maniera produttiva (il servo buono investe i talenti), che non è bene contrarre più debiti di quelli che si potranno ragionevolmente ripagare (debito non saldato è quasi sinonimo di peccato), che i ricchi devono aiutare i poveri (Epulone è dannato perché non lo fa), che bisogna usare le ricchezze in funzione del bene proprio e altrui (i ricchi virtuosi delle parabole hanno molti dipendenti), che il denaro è importante (la donna cerca la dramma perduta) e non può essere falsificato (nella Divina Commedia i falsari stanno all’inferno).

Come vedremo adesso, i teorici della socialdemocrazia moderna, in particolare John Maynard Keynes, contraddicono la maggior parte degli insegnamenti economici della Bibbia.

Se Cristo vuole che ogni uomo aiuti in prima persona i bisognosi, invece John Stuart Mill (uno dei padri fondatori della socialdemocrazia moderna) vuole che lo Stato tolga ai “ricchi” per dare ai “poveri”. In sostanza, la socialdemocrazia mette la ridistribuzione delle ricchezze al posto della carità. Fin quando non diventa troppo onerosa per chi paga, tale ridistribuzione all’inizio è comoda anche per lui: lui paga le tasse e in cambio lo Stato lo libera dal fardello della carità: “Ai poveri ci pensi lo Stato”. E lo Stato aiuta i “poveri” dando loro sussidi di ogni genere e posti di lavoro pubblici finanziati con i soldi delle tasse.

Se Giuseppe d’Egitto insegna a risparmiare nei tempi delle “vacche grasse” in previsione dei tempi delle “vacche magre”, invece il massone ateo John Maynard Keynes (perfezionatore della dottrina socialdemocratica) esorta a spendere sempre tutti i soldi che si hanno a disposizione, sia nei tempi delle “vacche grasse” che in quelli delle “vacche magre”. Se dunque per il Catechismo della Chiesa cattolica la mancanza di moderazione nelle spese ossia la prodigalità è un vizio contrario ed uguale a quello della avarizia, invece per Keynes la prodigalità è la somma virtù sociale. L’idea di Keynes è che per stimolare la produzione industriale (ossia aumentare il “prodotto interno lordo”) specialmente in tempi di crisi sia necessario aumentare i consumi e scoraggiare il risparmio. Sia dunque chiaro che è Keynes, non i “liberisti selvaggi”, a incoraggiare il consumismo di massa.

Per impedire ai cittadini produttivi di risparmiare, lo Stato keynesiano toglie loro i soldi con le tasse e li dà ai dipendenti pubblici. Per aumentare i consumi, lo Stato keynesiano aumenta costantemente il numero dei dipendenti pubblici. Dal punto di vista di Keynes non fa differenza se un dipendente pubblico costruisce utilissime infrastrutture oppure se timbra e sposta carte in un ufficio pubblico (che è un po’ come scavare buche e poi ricoprirle): l’importante è che riceva uno stipendio e che corra subito a spenderlo eccetera. Quindi, di fatto, la “teoria generale” di Keynes incoraggia i politici ad aprire cantieri inutili in cui si costruiscono infrastrutture inutili (che quasi mai vengono completate), a moltiplicare gli uffici inutili e gli enti inutili e infine a finanziare illimitatamente “servizi” pubblici inefficienti e corrotti, sempre e sistematicamente in deficit (vedi le aziende di trasporto pubblico).

In conclusione, ecco in che maniera coloro che lavorano nei cantieri inutili, negli uffici inutili, negli enti inutili e nelle inefficienti aziende pubbliche stimolano l’economia: comprano i prodotti delle imprese private con i soldi delle tasse, che sono pagate dalle imprese private stesse… Come se un bandito entrasse in un negozio e dicesse al negoziante: “Dammi i soldi della cassa, così con i soldi della cassa ci compro le tue merci”. Se dunque per il comune buon senso comprare i beni prodotti da qualcuno con i soldi di quel qualcuno non è tanto diverso dal derubarlo, invece per Keynes significa aiutarlo a fare affari.

Dunque lo Stato socialdemocratico-keynesiano paga i dipendenti pubblici, che non producono ricchezze, con i soldi delle tasse pagate dai produttori di ricchezze. E quando i soldi delle tasse non bastano più, lo Stato si indebita senza porsi nessun limite di indebitamento. Se dunque per il Vangelo contrarre più debiti di quanti se ne possano ripagare è peccato, invece per Keynes lo Stato che si indebita senza limiti è uno Stato virtuoso. Per ripagare i creditori, lo Stato stampa i soldi dal nulla tramite la banca centrale. Secondo la logica elementare, quando la banca centrale stampa denaro dal nulla non fa qualcosa di sostanzialmente diverso da quello che fa un falsario nella sua cantina. Se dunque dal punto di vista cristiano falsificare il denaro è un peccato gravissimo, invece dal punto di vista di Keynes falsificare il denaro è giusto se lo fa lo Stato.

Dunque la “teoria generale” di Keynes contraddice apertamente i principali insegnamenti economici della Bibbia ossia non è propriamente “morale”. I cristiani potrebbero essere tentati di pensare che si possa pure accettare una teoria poco morale, se questa teoria porta dei benefici pratici: “Che importa se è immorale? L’importante è che funzioni”. In realtà, anche se “funzionasse”, andrebbe rifiutata per il solo fatto che è immorale. Ma il fatto è che non funziona proprio. Se non rispetta la legge divina e naturale, una qualunque teoria non può funzionare per definizione.

“Ridistribuire le ricchezze” in teoria significa togliere ai “ricchi” per dare ai “poveri”, in realtà significa togliere a chi lavora tramite le tasse per dare a chi non lavora tramite la spesa pubblica. In altri termini significa trasformare chi lavora e produce ricchezze in uno sfruttato e il presunto povero in uno sfruttatore. In Italia i presunti poveri ottengono con facilità posti di lavoro pubblici, dove possono oziare tutto il giorno senza essere licenziati. Nelle nazioni di più antica e consolidata socialdemocrazia (Gran Bretagna, Francia, paesi scandinavi) i presunti poveri abitano gratis nelle case popolari e campano di sussidi di disoccupazione. L’immensa quantità di tempo libero che hanno a disposizione la usano per darsi alla piccola criminalità e per mettere a ferro e fuoco le periferie a scadenze regolari.

Dal momento che chi lavora e produce deve mantenere chi non lavora e non produce nulla, alla fine è più conveniente non lavorare e non produrre nulla ossia cercare di farsi passare per “poveri”. E infatti nelle nazioni di antica e consolidata socialdemocrazia il numero dei poveri-parassiti (ossia beneficiari si sussidi e posti di lavoro pubblici) aumenta costantemente mentre il numero dei produttori di ricchezze diminuisce costantemente. Di conseguenza le tasse aumentano, di conseguenza il numero dei produttori di ricchezze diminuisce ulteriormente… allora lo Stato comincia a contrarre debiti.

I keynesiani rimpiangono il tempo in cui la banca centrale ripagava i debiti dello Stato stampando denaro dal nulla. In realtà non c’è tanto da rimpiangere. Ogni peccato ha sempre per definizione conseguenze negative. Nello specifico, falsificare il denaro (peccato appena meno grave del tradimento) crea due mostri che negli anni Settanta le nazioni avanzate hanno imparato a temere: l’inflazione e la stagflazione. Quando crea inflazione, lo Stato deruba il cittadino virtuoso: i suoi sudati risparmi, messi insieme con grandi sacrifici, valgono improvvisamente di meno. Oggi lo Stato non controlla più la banca centrale. Non potendo più stampare denaro dal nulla a sua discrezione, lo Stato cerca di ripagare i debiti contraendo altri debiti, per ripagare i quali contrarrà ancora altri debiti eccetera. Il debito pubblico complessivo continua a crescere in tutti i paesi occidentali. In Italia da gennaio a maggio 2015 è cresciuto del 3,9 per cento. Nessuno si illuda che si possa andare avanti all’infinito ad indebitarsi impunemente: il problema del debito pubblico è che, prima o poi, bisogna pagarlo tutto, fino all’ultimo centesimo. E allora è Grecia.

In teoria (la teoria keynesiana) tutta questa spesa pubblica improduttiva finanziata con tasse e debito dovrebbe fare aumentare il consumo di beni e con esso la produzione di beni, in altri termini dovrebbe fare crescere l’economia. In realtà la spesa pubblica non ha mai fatto crescere nessuna economia. Ci viene accuratamente nascosto che il New Deal non ha posto fine alla Grande depressione iniziata nel 1929 ma piuttosto l’ha prolungata fino a 1945. Lo confessò nel 1939 il ministro del tesoro americano: «We have tried spending money. We are spending more than we have ever spent before and it does not work. And I have just one interest, and if I am wrong… somebody else can have my job. I want to see this country prosperous. I want to see people get a job. I want to see people get enough to eat. We have never made good on our promises… I say after eight years of this administration we have just as much unemployment as when we started… And an enormous debt to boot!» (Secretary of the Treasury, Henry Morgenthau, 1939). D’altra parte, se fosse vero che la spesa pubblica fa crescere l’economia, la Grecia a quest’ora dovrebbe essere più ricca della Germania.

In paesi come gli Stati Uniti al debito pubblico si somma un enorme debito privato. Come il consumismo di massa, anche la crescita abnorme del debito privato è una conseguenza delle politiche keynesiane. Non tutti sanno che Keynes invitava i governo ad abbassare il costo del denaro per incoraggiare gli investimenti. Ebbene, è stato proprio l’abbassamento eccessivo del costo del denaro promosso dalla Federal Reserve nel 2001 a scatenare negli Stati Uniti la tempesta di debiti, prestiti bancari non garantiti (subprime) e insolvenze, che hanno provocato fallimenti a catena di banche (cfr. Hunter Lewis, Tutti gli errori di Keynes. Perché gli Stati continuano a creare inflazione, bolle speculative e crisi finanziarie).

Andare contro la legge divina e naturale non conviene mai. Ad esempio, sul breve periodo rubare può portare benefici ai ladri, ma sul lungo periodo impoverisce la società intera e quindi anche gli stessi ladri. Tassare a morte le imprese e indebitare i cittadini a loro insaputa non è tanto diverso dal rubare. I cattolici per primi dovrebbero saperlo, i cattolici per primi dovrebbero battersi contro la teoria di Keynes e le altre teorie economiche che contraddicono esplicitamente la legge divina e naturale. E invece, la stragrande maggioranza dei cattolici tifano per la “ridistribuzione delle ricchezze” perché odiano il capitalismo ed odiano il capitalismo perché odiano i “ricchi”. Essi sono convinti che i “ricchi” rubano ai “poveri” tramite il capitalismo e quindi chiedono a Cesare di togliere ai “ricchi” per restituire ai “poveri” ciò che è stato loro tolto.

Ma in realtà, Gesù non chiede a Cesare di togliere a Epulone per dare a Lazzaro: casomai esige che Epulone aiuti Lazzaro in prima persona. Inoltre, non dice che investire e moltiplicare i talenti significa rubare ai poveri. I ricchi delle parabole non rubano a nessuno: creano ricchezze per sé stessi e per le persone che stanno alle loro dipendenze. Quando leggono la parabola dei talenti e le parabole dei ricchi virtuosi, la stragrande maggioranza dei cattolici mettono le mani avanti: “Il servo buono e i ricchi virtuosi sono solo figure simboliche, le parabole contengono significati spirituali, non insegnamenti economici”. Certo che contengono significati spirituali. Ma se Cristo avesse disapprovato il capitalismo, avrebbe accuratamente evitato di paragonare il buon cristiano al buon capitalista. Non avrebbe certamente avuto difficoltà a paragonarlo a qualcun altro. E se avesse pensato che è impossibile essere ricchi ed essere cristiani allo stesso tempo, non avrebbe paragonato il Padre a varie figure di ricchi virtuosi. D’altra parte nella Bibbia c’è scritto nero su bianco, al di fuori di ogni metafora: «La ricchezza, se è senza peccato, è un bene» (Siracide 13,24). Ci riflettano bene i cattolici.

Giovanna Jacob

Tags: bibbiacapitalismocrisidebito pubblicogreciagrexitJohn Maynard Keynesliberismopaul krugmanripresavangelo
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