Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti).
Prima chiosa a margine sugli attentati a Parigi. Il giorno seguente, il quotidiano Libero ha titolato “Bastardi islamici”. Dopo le polemiche, il direttore Maurizio Belpietro si è difeso dicendo che non era sua intenzione “generalizzare”. Ma se non è una generalizzazione quella, che cosa lo è?
Seconda nota a margine: venerdì sera, ero come tutti davanti al televisore a seguire il succedersi degli avvenimenti. Su Rai Uno c’era l’ottimo Antonio Di Bella in collegamento dalla capitale francese che, con un occhio alle agenzie, rispondeva alle domande della giornalista in studio a Roma. Man mano che passavano le ore venivamo informati di quanto accadeva: la carneficina al Bataclan ad opera dei «terroristi», le esplosioni nei pressi dello stadio ad opera dei «terroristi», gli altri attentati in varie parti della città, sempre per mano dei «terroristi».
È vero che ancora non c’erano notizie certe su chi fossero, e dunque sarebbe stato perlomeno incauto avanzare illazioni, ma c’era nelle parole dei giornalisti del Tg1 un’illogica “cautela”. Ci raccontavano che avevano urlato «Allahu Akbar», che i primi testimoni avevano raccontato che uno di loro al Bataclan aveva urlato che quella era la loro vendetta per «i bombardamenti di Hollande in Siria», che l’Isis aveva rivendicato gli attentati.
Eppure, in circa tre ore di diretta, la parola «islamico» non è mai stata pronunciata. Mai. Chiamare le cose con il loro nome è il primo modo per affrontare la realtà. Censurare e generalizzare sono il primo modo per sfuggirla.
Foto Ansa