Ieri era il 9 del mese di Av, il giorno in cui l’imperatore Tito, nell’anno 70 d.C. dopo aver tentato inutilmente di domare la rivolta degli Ebrei della Giudea, distrusse il Tempio di Gerusalemme. Il secondo Tempio, il primo era stato distrutto dai babilonesi, guidati da Nabuccodonosor nel 586 A.C. Ieri, mentre alcuni fedeli pregavano davanti al Muro Occidentale, l’unico resto di quel Tempio, dall’alto degli spalti altri fedeli, fedeli a un Libro diverso, hanno cominciato a lanciare sassi. Il giorno di preghiera si è trasformato in tafferuglio, disordine, rabbia e dolore.
Il Papa e il miracolo dell’Anno Santo
Ho pensato tutto il giorno alle voci riportate dai media e dai i giornali. Nella mente immagini dell’ultimo anno che si accavallavano vertiginosamente, flashback di sensazioni vissute in quei luoghi di fede di culto e di raccoglimento che dovrebbero avvicinarti a D-o, dove imperversavano odio e paura… la sensazione di voler dire qualcosa e l’impossibilità di farlo. E un dolore profondo qui, al centro dello stomaco… L’ultima volta che sono stata a Gerusalemme, alla spianata del Tempio, è stato esattamente un anno fa, d’agosto, in circostanze assolutamente misteriose. Ancora oggi cerco di spiegarmi per quale disegno divino la mia strada si sia incrociata con quella del gruppo Camarillis di una Parrocchia di Salerno. Nell’aria festosa dello scorso agosto nell’aria d’Israele c’erano ancora gli echi di Oslo che rendevano tutti noi effervescenti e spumeggianti. I nostri soldati erano finalmente, volontariamente usciti dal Libano, con la sicurezza di una Pace immediata. Anche la scia luminosa dell’Anno Santo sembrava aver segnato tutto di luce: la benedizione del Papa con il suo storico ed emozionante viaggio, aveva riempito l’aria di Pace, di speranza e di buono. Migliaia di pellegrini da tutto il mondo avevano cominciato a riversarsi in Israele.
In quest’atmosfera travolgente mi sono trovata improvvisamente a fare da guida a un gruppo di pellegrini italiani di Salerno. Le agenzie di viaggio avevano grande richiesta di accompagnatori in lingua italiana e il mio nome era giunto per caso dalla Galilea a un’agenzia di Gerusalemme.
Tre popoli e una terra. La cosa più semplice e buona del mondo
Da tempo volevo raccontare questa esperienza che è stata una delle più toccanti e decisive della mia vita.
Io Ebrea, cresciuta a Roma, la più antica comunità ebraica del mondo e oggi madre in Israele, mi sono trovata a far da guida nei Luoghi più Santi del Cristianesimo, la maggior parte dei quali sorgono in zone controllate da Arabi Palestinesi, accanto ad un Sacerdote, uno straordinario Don Arcangelo, personaggio di grande saggezza e di grande Umanità, e ad Anton, giovane autista musulmano del nostro autobus, studente all’Università araba di Bir Zweit, nato a Gerusalemme. Da un anno cerco di spiegarmi il mistero di questo dono inestimabile che mi è stato dato. Da un anno continuo a sorprendermi di ciò che la vita può riservare, di quante cose abbia ancora da scoprire.
Io, responsabile da anni di tutte le cerimonie delle feste ebraiche in tutte le comunità nelle quali ho vissuto, io così legata ai valori della Maggiorità religiosa, io che ho seguito la circoncisione di quattro figli, che a sentire le voci del coro del Tempio di Roma mi emoziono fino alle lacrime, ho provato grande empatia, grande affinità con tutte le cerimonie alle quali ho assistito accompagnando questo gruppo. La Messa sotto gli alberi sul Monte delle Beatitudini e il Discorso della Montagna pronunciato da Don Arcangelo in quell’aria suggestiva, davanti un Lago di Tiberiade scintillante, sulle cui sponde sorgono decine di kibbuzzim e moshavim, il rinnovo delle promesse coniugali nella piccola Chiesa di Kfar Cana dove l’acqua si trasformò in vino. Il Monte Tabor, dove avvenne la Trasfigurazione e da dove si vedono decine di villaggi e cittadine sommersi nel verde, frutto dell’alacre lavoro dei primi pionieri ebrei venuti da tutto il mondo e il Monte degli Ulivi dal quale ti appare tutta Gerusalemme come avvolta in un raggio di luce.
Mentre Anton, ci guidava attraverso Hebron e Betlemme, Don Arcangelo leggeva brani dal Vangelo, e io dalla Torà… e tutto era normalissimo, la cosa più semplice e buona del mondo. Tre Popoli e una Terra. Tre Popoli e una Città.
Piangere di gioia al Muro Occidentale
Giunti a Gerusalemme ci siamo arrampicati su per la via Crucis, ci siamo fermati davanti alla Moschea dalla cupola d’oro e siamo arrivati al Muro Occidentale. Ho spiegato che non si chiama più Muro del Pianto. Ora non siamo più nella Diaspora. Una volta ci era permesso di pregare davanti a questo Muro solo il 9 di Av, il giorno della distruzione del Tempio. Dal 1967, da quando Gerusalemme è di nuovo nostra, vi si può pregare ogni giorno.
Chiunque voglia pregare in Israele, non importa a che D-o, può farlo, sempre. Davanti al Muro, alcune di quelle persone meravigliose mi hanno chiesto se avessero potuto pregare anch’essi nonostante non fossero di religione ebraica. Ho spiegato che anche il Papa aveva pregato lì e ho raccontato la leggenda Hassidica, di quell’uomo semplice che ogni giorno si preparava alla preghiera e dopo aver indossato lo scialle e i filatteri cominciava a pronunciare le lettere dell’alfabeto ebraico “Alef, bet, ghimel, dalet…” guardando trepidamente verso il cielo. Quando gli domandarono il motivo rispose: “Io sono un uomo semplice non ho mai studiato e non so le preghiere… invio con amore tutte queste lettere a D-o, e Lui, nella sua grande bontà si comporrà una preghiera come vorrà!” Poi mi sono staccata dal gruppo, mi sono avvicinata al Muro, ho preso un Libro dei Salmi, l’ho aperto a caso e ho pianto. Perché a volte si piange anche di gioia, si piange per ringraziare, si piange perché non si capisce bene cosa stia succedendo ma si capisce che sta succedendo qualcosa di buono… e si vorrebbe prolungare questo momento all’infinito. Quando a Nablus un mercante arabo palestinese mi ha regalato un copricapo di velluto ornato con ricami dorati gli ho stretto la mano, gli ho sorriso e ho spiegato a tutti che questo era un grande evento per me, lui mi guardava e non capiva, ma probabilmente dal mio entusiasmo ha intuito che era qualcosa di molto positivo e mi ha sorriso con due grandi occhi neri lucenti.
Vita quotidiana (con una speranza) a Hebron dopo la seconda Intifada
Prima che tornassero in Italia ho donato ad Andrea, un bambino, la mascotte del gruppo, una piccola spilla a forma di colomba. Era un segno di speranza: i bambini sono il futuro e forse potranno cambiare un giorno le sorti del mondo… Dopo una settimana è iniziata la seconda intifada. Da allora passare per Hebron è diventato un pericolo mortale. Da allora non ci sono più mercanti palestinesi che regalano copricapi ornati di ricami dorati a guide ebree che mostrano a pellegrini cristiani i Luoghi dove Gesù è nato e cresciuto e ha predicato quella Pace di cui tanto si parla nella Torà. Da allora non ci sono quasi più pellegrini. Anzi, non ce ne sono proprio. E proprio in questi giorni cosi terribili per il Popolo d’Israele ho ricevuto la lettera d’un mio caro amico profondamente cristiano. La sua empatia mi ha dato la possibilità di esprimere liberamente il mio orgoglio di donna ebrea, di esprimere tutti i bei ricordi che serbavo nel cuore. Mi hai dato la volontà e l’ispirazione per scriverli, per renderli vivi. Di raccontare come sia gratificante scoprire le affinità tra gente che sa rispettarsi senza fanatismi, senza il bisogno di sopraffarre. Questa è la mia occupazione nella vita di tutti i giorni: i 280 allievi di tutte le età ai quali insegno durante la settimana escono dalle mie lezioni “più leggeri, più allegri”, come mi ha scritto una di loro alla fine dell’anno scolastico e so perché. Perché già dall’inizio di ogni incontro si crea nell’aria un’atmosfera positiva di accettazione totale, di “quell’empatia ultimativa” che riempiono l’aria di energia, di positivo. Proprio come il mio amico ha fatto con me. “Ogni istante ricordiamo e benediciamo Colui che avete donato al mondo”. Ogni essere umano è un dono alla sua nascita. Per il popolo d’Israele la nascita è il più bel regalo di D-o. Per questo la vita, la nostra e quella degli altri, ci sono così care.
Per questo ci addolora sentirci tacciare di violenza. Forse proprio perché il rispetto per la vita è uno dei nostri valori più importanti, da più di 2000 anni ci accusano di omicidi spietati. Noi, e scrivo questo con grande orgoglio, noi che dopo un anno di attentati alla vita dei nostri figli, dopo anni di violenza ai passanti, a chi è in vacanza, a chi sta aspettando l’autobus, a famiglie ignare che stanno mangiando una pizza, il massimo della violenza che possiamo causare è quella morale di occupare un quartier generale o di bloccare seppure con la forza i mandanti di queste carneficine.