Odoardo Focherini, l’uomo che salvò oltre cento ebrei dalla deportazione, diventa beato

Di Laura Borselli
15 Giugno 2013
Fu assicuratore, giornalista e dirigente dell’Azione Cattolica sotto il fascismo. Storia di un uomo che insieme all’amata moglie visse un cristianesimo non da salotto. Fino al sacrificio supremo

«Quanti baci? Tanti quanti te ne darò il Giorno beato che aspetto con cuore sempre più a te unito». Odoardo Focherini ha 37 anni quando scrive l’ennesima lettera d’amore alla sua Maria. A casa con lei ci sono sette bambini nati in 14 anni di matrimonio. Odoardo e Maria hanno già pronto il nome per l’ottavo. Sandro o Sandra si sarebbe chiamato quel desideratissimo figlio se Odoardo fosse uscito vivo dalla prigione. Quella lettera la scrive infatti durante la detenzione che lo condurrà alla morte nel campo di concentramento di Hersbruck, Germania. Lì viene rinchiuso per aver salvato oltre cento ebrei dalla deportazione ed essere stato un cattolico “non da salotto”, per dirla con le parole di papa Francesco, negli anni del regime fascista. Oggi Odoardo Focherini verrà proclamato beato nella piazza della sua Carpi.

«Non riusciamo a comprendere come un santo possa essersi assiso alla nostra mensa, a mangiare gagliardamente e gagliardamente bere, parlando di cose futili, scherzando, giocando con i nostri bambini, dormendo poi sotto il nostro tetto come un qualsiasi mortale. Dimenticando nella nostra miseria che la Chiesa ha il mandato divino di fare di ogni uomo un cristiano e di ogni cristiano un santo e che quindi è più che naturale che se un uomo come Odoardo Focherini prende sul serio la sua dignità di cristiano, cammina naturalmente sulla via della santità». Le parole di Giacomo Lampronti, giornalista ebreo e suo fraterno amico, chiariscono quanto la figura di Odoardo sia straordinaria nella normalità. Odoardo Focherini fu uomo, marito, padre, assicuratore e giornalista, figura di spicco e di dedizione eccezionale all’Azione Cattolica diocesana. Ad assistere alla beatificazione i familiari di Odoardo saranno oltre una cinquantina tra figli e coniugi, 15 nipoti, 21 pronipoti. La gran parte di loro non ha conosciuto direttamente quell’uomo la cui «assenza – racconta Francesco Manicardi, figlio di Gianna, quintogenita di Odoardo e Maria – è sempre stata presentissima».

Del resto anche alcuni dei figli non hanno che un vago ricordo del loro babbo. L’11 marzo del 1944, quando viene arrestato, la figlia più grande, Olga, ha 13 anni; Paola appena 8 mesi. I piccoli hanno conosciuto il babbo attraverso i racconti della madre. Sì, perché non si può capire Odoardo, la sua vita normale e straordinaria, senza la figura della moglie Maria Marchesi. «Non si tratta – nota ancora Francesco Manicardi – della “grande donna” che sta dietro ad un grande uomo ma piuttosto di una coppia che ha saputo condividere i valori, le scelte, la vita fino in fondo “nella gioia e nel dolore”». E non è un caso allora che nell’eccezionale corpus di 166 lettere che Odoardo è riuscito a spedire dai vari carceri e campi di concentramento in cui si è trovato, la figura principale sia Maria. Odoardo era riuscito in qualche modo a farsi assegnare agli uffici postali e tra sotterfugi e corruzione di guardie fece uscire molte lettere, ogni volta firmando con un nome diverso, quello di un parente defunto, di un amico, qualcuno che solo Maria poteva riconoscere. In quelle lettere era il babbo che scriveva gli indovinelli ai bimbi, promettendo ricchi premi per il vincitore al suo ritorno, era il marito che appassionatamente desiderava riabbracciare la moglie e la metteva a parte delle intuizioni maturate in prigionia. «Avevamo forse bisogno – scrive in una delle lettere più toccanti – che il dolore con i suoi aculei cerchiasse i nostri cuori per riunirli di più, per compenetrarli ancora di più, per saldarne la indissolubilità. Senz’altro la Provvidenza ci ha chiesto questa prova che potrà anche prolungarsi nel tempo e maggiorare in intensità per ricambiare la generosità e la bontà dell’accettazione in tante rose senza spine, in tanti petali di protezione per i figli di questo nostro grande amore, per i fiori sbocciati da questa nostra unità di pensieri, di ideali, di vita, di speranze, nate e cresciute al sole di una fede nella quale abbiamo cercato sempre di vivere e di operare».

«Lo rivedo, Odoardo, – scrive ancora l’amico Lampronti – seduto su questo sedile accanto a me, con la sua grande borsa di cuoio, piena di tutto, anche di quei tali documenti che gli servivano per salvare gli ebrei, assieme alle polizze di assicurazione, ai documenti dell’Avvenire, alle scarpe da portare ai figlioli, ai bicchieri infrangibili da portare a casa, sicché sorridendo soleva dire: “Sfido chiunque a capire dalla mia borsa quale sia il mio mestiere”». Il suo mestiere, in realtà, era uno solo, quello di assicuratore alla Cattolica Assicurazioni, ma di attività da compiere ne ha molte altre. C’è l’impegno con l’Ac e poi il coinvolgimento nell’Avvenire d’Italia, giornale cattolico che diventerà, anni dopo, l’Avvenire che conosciamo oggi. Odoardo per Il giornale di Bologna e per l’Osservatore Romano fa il corrispondente da Carpi. Nel 1939 diventa anche amministratore del quotidiano che in quegli anni tira tra le 40 e le 60 mila copie. Gestisce, a titolo gratuito, circa 200 persone.

Giornalista durante il regime
E lo fa negli anni in cui il regime fascista tenta di stringere la morsa sulla stampa. Lavora a fianco del direttore Raimondo Manzini (che diverrà poi direttore dell’Osservatore Romano), e insieme a lui guida un giornale intelligentemente cattolico, in grado di stare in equilibrio tra il rispetto formale per il regime (per non incorrere nella censura e nella chiusura) e la necessità di fornire un’informazione libera, rivolta ai cattolici ma non solo. Ai redattori fa ascoltare in segreto Radio Londra perché sappiano cosa succede davvero. Ogni giorno arrivano le veline del regime. Odoardo ne dà pubblica lettura ai dipendenti, ne fa delle barzellette. Come quel giorno in cui arriva l’indicazione a una pescheria di Bologna perché cambi il suo motto pubblicitario. Vietato usare “Il nostro pesce ha sempre ragione”, perché è solo il Duce che ha sempre ragione. Dopo l’8 settembre il regime fa pressione sui giornali perché escano dicendo che non è successo nulla. Focherini e Manzini dichiarano che non possono stampare perché hanno finito la carta, dopo aver fatto nascondere tutta quella che c’era. La scusa regge fino a che ai nazisti occupanti non arriva voce che presso il seminario di Carpi si trovano delle risme di carta. Focherini viene convocato dalle SS e caldamente invitato a prelevare la carta dal seminario. Riponde pressapoco così: nessun problema, spero solo che non incorrerete in incidenti diplomatici dato che il seminario si trova in territorio soggetto al Vaticano. La faccia tosta e l’ignoranza dei tedeschi lo salvano e la bugia funziona. «Aveva una chiave infallibile per tutte le porte – dice di lui Lampronti –: la fiducia nella Divina Provvidenza e l’ottimismo che ne derivava. Io faccio quello che posso – diceva – dove non arrivo io arrivi Dio. Poiché io lavoro per Lui, è impegnato ad aiutarmi».

Con Maria Odoardo condivideva tutto, la consultava per tutte le scelte importanti. Lo fece quando dalla nascente Dc gli arrivò la proposta (poi declinata) di entrare in politica e lo fece quando, insieme al sacerdote don Dante Sala, iniziò a prodigarsi per far sfuggire gli ebrei alla deportazione. Odoardo e don Dante procuravano documenti falsi, li consegnavano agli ebrei e organizzavano il passaggio in Svizzera. In questo modo salvarono oltre 100 persone dalla deportazione in Germania. Quando viene arrestato dopo i primi interrogatori Odoardo si dice sicuro di poter provare la propria innocenza ma sconvolto dal tono profondamente anticattolico delle domande. In quei giorni va a trovarlo in carcere il cognato Bruno Marchesi. Di fronte alle sue perplessità Odoardo risponde: «Se tu avessi visto, come ho visto io in questo carcere, cosa fanno patire agli ebrei, non rimpiangeresti se non di non averne salvati in numero maggiore». Senza uno straccio di condanna viene trasferito nel campo di Fossoli, in quello di Bolzano e infine in Germania, prima a Flossenburg, poi nel sottocampo di Hersbruck, dove muore di setticemia a 37 anni il 27 dicembre 1944. Ad assisterlo nei momenti estremi c’è Teresio Olivelli (del quale pure è stata avviata la causa di beatificazione), che prima di morire a sua volta nello stesso campo avrà il tempo di trasmettere le ultime parole dell’amico: «Dichiaro di morire nella più pura fede cattolica apostolica romana e nella piena sottomissione alla volontà di Dio, offrendo la mia vita in olocausto per la mia Diocesi, per l’Azione Cattolica, per l’Avvenire d’Italia e per il ritorno della pace nel mondo. Vi prego di riferire a mia moglie che le sono sempre rimasto fedele, l’ho sempre pensata e sempre intensamente amata».

La notizia arriva alla famiglia mesi dopo, in giugno. Un anno dopo il figlio Attilio, di 11 anni, muore di meningite. «Nessuno di noi – racconta Manicardi – ha mai sentito dalla nonna Maria una parola di recriminazione nei confronti del nonno e della sua scelta, è sempre rimasta devota a un amore che ha contato 5 anni di fidanzamento, 14 di matrimonio, 45 di lutto». Per mantenere la famiglia Maria si arrangia con lavoretti e si avvale dell’aiuto prezioso del fratello Bruno. Grazie a lui i figli di Odoardo che lo vogliono riescono a studiare, addirittura Maddalena Focherini si laurea in medicina, un fatto “sensazionale” per una donna nell’Italia degli anni Cinquanta.

La missione di ogni cristiano
Odoardo, ha detto il vescovo di Carpi, monsignor Francesco Cavina, ci mostra che «chi incontra Cristo diventa più umano, più autentico. Si è sporcato le mani in ogni ambito di vita, anche correndo il rischio di non essere capito, ma ha accettato di essere profezia nel mondo, ed è questa la missione di ogni cristiano». Dopo aver assistito, nel gennaio ’44, al bombardamento della sede dell’Avvenire d’Italia a Bologna, Odoardo disse: «Quando hai eretto pietra su pietra, con sacrificio e rinunce, la costruzione che pur deve servire a Dio, una raffica spezza ogni cosa. Ma bisogna non disperare ancora. Bisogna porsi pazientemente all’opera di ricostruzione. Dio vuol dimostrarci così quanto siano labili le nostre povere opere. Può apparire questa una delle tante contraddizioni del cristianesimo. E racchiude invece una grande verità. La fatica val più dell’opera agli occhi di Dio. L’opera può farci inorgoglire; la fatica rimane il solo titolo di merito davanti al Signore». Domenica prossima sarà proclamato beato nella piazza di Carpi. Cioè nella diocesi che dopo il sisma dell’anno scorso si è trovata con 49 chiese inagibili su 54.

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