Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
All’indomani delle stragi di Charlie Hebdo e di Hyper Cacher, Alain Finkielkraut aveva detto e scritto che non bisognava farsi illusioni sull’apparente unanimità con cui i francesi erano scesi in piazza dietro la parola d’ordine “Je suis Charlie”, perché in realtà essi restavano divisi in due partiti: il partito del soprassalto (parti du sursaut), deciso a difendere i princìpi della società francese contro l’attacco terrorista e a criticare una certa cecità e sordità delle élite di fronte all’odio antifrancese presente all’interno di alcune comunità di recente immigrazione, e il partito dell’Altro, convinto che i responsabili ultimi dell’accaduto siano gli xenofobi, gli islamofobi, gli intellettuali conservatori e i governi francesi che hanno demonizzato i giovani musulmani e praticato politiche neo-colonialiste e neo-imperialiste. Nemmeno le stragi di Parigi del 13 novembre sembrano avere intaccato questo dualismo che attraversa la società francese.
Certo, nel suo atto di accusa contro il mondo politico francese Michel Houellebecq, che curiosamente ha scelto l’italiano Corriere della Sera per pronunciare il suo atto di accusa, ha riunito temi di destra e di sinistra, dell’uno e dell’altro partito: «Chi è stato a decretare i tagli nelle forze di polizia, fino a ridurle all’esasperazione, quasi incapaci di svolgere le loro mansioni? Chi ci ha inculcato, per tanti anni, che le frontiere sono un’assurdità antiquata, simbolo di un nazionalismo superato e nauseabondo? Si capisce subito che tali responsabilità sono state largamente condivise. Quali leader politici hanno invischiato la Francia in operazioni assurde e costose, il cui principale risultato è stato quello di far sprofondare nel caos prima l’Iraq, poi la Libia? E quali governanti erano pronti, fino a poco tempo fa, a fare la stessa cosa in Siria?».
Ma l’autore di Sottomissione, che dà dell’«insignificante opportunista» a François Hollande e del «ritardato congenito» a Manuel Valls, è iscritto per sempre al partito di quelli che, secondo gli esponenti del partito dell’Altro, vogliono riportare la Francia agli anni Trenta, cioè al nazionalismo, alla xenofobia e al nuovo antisemitismo: l’odio per i musulmani. Chiamati in causa da Edwy Plenel, giornalista e scrittore protagonista dello scontro più tempestoso di tutta la storia di Arte (il canale culturale della tv francese) l’anno scorso con Finkielkraut, che nel suo pezzo di commento ai fatti di Parigi scrive che «sono le profezie che si autoadempiono la vera molla delle sue (del terrorismo, ndr) terrificanti logiche assassine». E rincara poi la dose spiegando che non si potrà resistere al terrorismo «se ci si nega il diritto di interrogare una politica estera di alleanza con regimi dittatoriali o oscurantisti (Egitto, Arabia Saudita), di avventure belliche senza visione strategica (soprattutto nel Sahel), di leggi per la sicurezza la cui accumulazione si rivela inefficace (mentre attentano alla nostra libertà), di discorsi politici miopi che volano basso (sull’islam soprattutto, con questo rimosso coloniale dell’“assimilazione”), che dividono più di quanto uniscono, che alimentano l’odio più di quanto non diano sicurezza».
Dhorasoo e la Marsigliese
Ed è ancora poco in confronto a quel che dice Michel Onfray, il filosofo epicureo-nietzschiano che di fatto giustifica l’azione dell’Isis in terra francese come rappresaglia per le azioni di guerra francesi nei paesi musulmani, e che non teme di istituire un’identità perfetta fra musulmani, stati abitati in maggioranza da musulmani e Isis. Dichiara in un’intervista a Le Point: «Quello che ha avuto luogo il 13 novembre è certamente un atto di guerra, ma esso risponde ad altri atti di guerra. La Francia fa parte della coalizione occidentale che ha dichiarato guerra ad alcuni paesi musulmani: Iraq, Afghanistan, Mali, Libia. La Francia è così ingenua da pensare di poter dichiarare guerra a dei paesi musulmani senza che reagiscano?». Secondo Onfray è ingiusto continuare a definire terroristi i combattenti dell’Isis, perché il loro stato è sullo stesso piano dei nostri nel bene e nel male, dunque è ingiusto «negare loro il diritto di affermare che sono uno stato islamico, fare di loro dei barbari, qualificarli come terroristi allorché certamente uccidono delle vittime innocenti, ma l’Occidente fa la stessa cosa su scala più grande con bombe lanciate da molto in alto su villaggi, bombe che uccidono donne e bambini, anziani e uomini che non hanno altro da rimproverarsi se non di abitare un paese associato con l’asse del male».
Con quello stato Onfray propone di scendere a patti piuttosto che logorarsi in una guerra senza via di uscita: «Si potrebbe firmare una tregua fra la Francia e lo Stato islamico affinché il suo esercito in sonno sul nostro territorio deponga le armi. Questa è una guerra condotta dall’islam politico (l’islam politico, non un gruppo di terroristi, ndr) con tanta intelligenza quanta quella con cui l’Occidente conduce la sua. E inoltre esso dispone di una visione della Storia, cosa che noi, intrappolati nel nostro materialismo volgare, siamo incapaci di avere».
Nemmeno sull’orgoglio per i simboli in Francia c’è unanimità dopo la strage: in giro per il mondo si suona la Marsigliese prima dei concerti o delle partite di calcio, ma un ex nazionale transalpino come Vikash Dhorasoo, noto per le sue simpatie politiche di estrema sinistra, ha gelato i telespettatori di France 2 esprimendo la sua insofferenza per la retorica patriottica a base di inno e bandiera: «Io penso che si può essere francesi senza conoscere la Marsigliese, si può essere francesi senza conoscere la bandiera e senza mangiare cibi tipici francesi. Se non mi avessero insegnato la Marsigliese durante il servizio militare, non la conoscerei. Quando ho giocato con la nazionale francese, mi dava una certa soddisfazione giocare per la Francia, ma più di tutto mi piaceva ritrovarmi a giocare coi migliori».
A Dhorasoo, che dopo avere abbandonato il calcio (una stagione anche al Milan) è diventato giocatore di poker professionale, è sempre piaciuto disgustare i borghesi e scavalcare a sinistra i benpensanti, e nemmeno stavolta si è lasciato sfuggire l’occasione: «Ecco, questa è una cosa che mi dà fastidio: la Francia è una terra di accoglienza, dobbiamo stare tutti insieme, francesi e non francesi. La bandiera, la Marsigliese: questi simboli non mi vanno a genio. Dire che chi non conosce la Marsigliese non è veramente francese è un altro modo di stigmatizzare le persone».
Devastanti “delicatezze”
Dall’altra parte della barricata, fra quelli che si dicono convinti che la Francia ha un problema di identità e che l’islam non può essere assolto troppo in fretta dalle sue responsabilità per le atrocità dei terroristi che dicono di agire in suo nome e innalzando la sua bandiera, i toni non sono meno polemici. E non si tratta solo dei soliti nomi (Houellebecq, Eric Zemmour e Finkielkraut, che pure ha rilasciato un’intervista a Le Figaro nella quale invita a controllare i flussi migratori, perché «più arrivano immigrati dal mondo arabo-musulmano, più la comunità nazionale si frammenta e la propaganda radicale prende piede»).
Scrive su Le Monde Olivier Rolin, scrittore proveniente dall’estrema sinistra: «“Tutto questo non ha niente a che vedere con l’islam”. Ma no, certo. Degli assassini che uccidono a mitragliate gridando “Allahu Akbar!”, questo non c’entra niente con l’islam. Lo “Stato islamico” non ha niente a che vedere con l’islam. Deve essere un errore di traduzione. Gli abomini commessi ogni giorno, nel mondo intero nel nome di Allah, gli sgozzamenti, le decapitazioni, i crimini contro le donne, tutto questo non ha niente a che vedere con l’islam. Siamo seri. Il jihadismo è senza dubbio una malattia dell’islam, ma intrattiene con questa religione esattamente il rapporto innegabile che una malattia ha col corpo che divora. (…) Si dice: “I musulmani non devono prendere le distanze pubblicamente dalla barbarie jihadista, perché non ne sono gli autori e chiederglielo equivale a stigmatizzarli”. Confesso che questa logica mi sfugge. I cittadini francesi che manifestavano, in passato, contro la guerra d’Algeria non ne erano responsabili, ma la guerra era fatta in loro nome, ed è proprio per questo che sentivano il dovere di manifestare pubblicamente la loro opposizione».
E Daniel Rondeau, prima giornalista per storiche testate di sinistra come Libération e Le Nouvel Observateur e poi diplomatico impegnato ad avvicinare le due sponde del Mediterraneo, scrive sullo stesso numero di Le Monde: «Da parecchio tempo noi francesi non ci amiamo più e dubitiamo di noi stessi, della nostra lingua madre, dei nostri santi e dei nostri eroi, della nostra cultura. Questo comportamento depressivo ci rende deboli, e la nostra più grande debolezza è stata di non saper più guardare la verità e di non voler più chiamare per nome i nostri nemici. Non voler vedere la degradazione di certi quartieri, non capire che alcuni individui ci odiano al punto di volerci uccidere, rifiutare l’evidenza di una crisi identitaria, non nominare l’islamismo, non misurare l’ampiezza dell’antisemitismo, rifiutare di ammettere che il Mein Kampf e i Protocolli dei savi di Sion sono dei best-seller in alcuni quartieri, è negare la realtà. Siamo da molto tempo prigionieri di queste favole. Tutti quanti ci siamo inventati delle buone ragioni per mettere la testa sotto la sabbia: non avvelenare le tensioni etniche, non aprire una contesa con l’islam, non favorire l’ascesa del Front National, eccetera. Tutte queste “delicatezze” (forme incoscienti di collaborazione) ci hanno fatto abitare una menzogna e ci hanno privato della nostra libertà e della nostra intelligenza. Non si può fondare niente su di una menzogna. E tutto ciò che quelli che ci mentivano pretendevano di evitare, è accaduto: le tensioni sono più vive che mai, il Front National è in posizione dominante, e gli assassini sono entrati a Parigi».
Foto Ansa