Le identità nazionali ostacolano l’espansione del mercato: lo affermava, sbagliando, Friedrich A. von Hayek, emblema della “Scuola Austriaca di Economia” di cui non pochi sono i pregi teoretici e storici. Carlo Pelanda e Paolo Savona, studiosi di economia di fama mondiale, lo illustrano in Sovranità & ricchezza (Sperling & Kupfer, Milano 2000). La globalizzazione è l’effetto creato negli anni Novanta (ma il trend ha quasi un secolo e mezzo) dalle forti accelerazioni impresse dal “turbocapitalismo” al mondo uscito dalla Guerra Fredda, ma la «cattiva notizia» è che si tratta di uno spazio politicamente, e per certi versi pure economicamente, vuoto, conteso fra nazionalismi socialistici di tipo protezionistico e riduttivismo economicistico selvaggio. L’Unione Europa solo economica e non politica di oggi offre un modello insufficiente: superiore a un’alleanza fra Stati sovrani, ma inferiore a una loro unione, avoca a sé la sovranità senza però mai restituirla (filtrata, auspicano gli autori) ai Paesi membri. S’impone allora «un’architettura politica del mercato planetario che veda ancora protagonisti gli Stati nazionali nell’ambito di consessi internazionali che si prefiggano di operare come agenti del loro stesso cambiamento in un’ottica globale». Le intuizioni molto realistiche (e quindi adeguate ed efficaci) degli autori non fugano tutti i dubbi che questo tipo di approccio di fatto solleva. Eppure, rifiutando apertis verbis l’ipotesi di un governo mondiale unico e mostrando un europeismo sui generis non lontanissimo dalla concezione di “sovranità aperta” che caratterizza la politica economica della Gran Bretagna (in specie verso gli antichi Dominion e i Paesi del Commonwealth) secondo l’idea dello «Stato della crescita», ma insistendo sulla necessità di una struttura sovranazionale «alla cui base vi siano gli Stati, che mantengano le loro identità, se lo vogliono, anche riunendosi in un unico cervello di sistema», Pelanda e Savona si mostrano lontani dalle sensibilità del “pensiero mondialista” e molto prossimi all’eredità di quella intrigante scuola di pensiero che negli Stati Uniti si definisce Libertarianism. E così lo scenario che auspicano ricorda l’esigenza, dopo il tramonto (con le due guerre mondiali) dello Ius Publicum Europaeum, di un nuovo Nomos capace di riorganizzare (secondo l’ipotesi di Carl Schmitt) i “grandi spazi”. Che assomiglia all’idea d’impero (unione di universale e di particolare), alternativa a imperialismo e “modello ONU”.
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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Emanuele Boffi