Del “momento dottor Zivago” di talune mattine, quando, per raggiungere l’asilo con la prole, devo affrontare quella Narnia in cui il paese si è trasformato “grazie” alla neve, farei volentieri a meno. Ma tant’è. Il problema è che, accidenti a me e a come sono limitata, ho solo due mani. Quindi non riesco contemporaneamente a spingere il passeggino con cui trasporto il terzogenito e a tenere l’ombrello (no, non ce l’ho la cerata anti-pioggia/neve del quadriciclo: come sempre certi gadget rivelano la loro reale utilità quando tu non hai più né tempo né voglia di andarli a cercare in fondo alla cantina dove li hai cacciati). Né, in certe occasioni, è conveniente o lungimirante prendere la macchina: non lo sai forse che tutte le mamme oggi si presenteranno con l’hammer e lo parcheggeranno in decima fila? Quindi preparo i primi due – ai soliti giacca-sciarpa-cappello-guanti si aggiungono gli stivali da neve – e infilo il terzo, pure lui tutto bardato, nello zaino per portare i bimbi in montagna. E così concia, da sherpa della spedizione sull’Himalaya, mi avvio ai miei temerari e spericolati 800 metri di avventura.
All’inizio tutto bene: i “grandi” tutti gasati e contenti, inventano storie, si rincorrono, non ci possono credere, è praticamente Natale. Il terzo non si sente: una gioia inesprimibile lo sopraffà? Gli ho stretto troppo forte la sciarpa e non riesce a parlare? È svenuto assiderato? Passo davanti alla vetrina di un negozio o lo vedo, rispecchiato, coperto di neve: per essere ancora più comoda – si fa per dire – uscendo avevo deciso di non prendere l’ombrello, coprendo me col cappuccio del cappotto e lui con un “tettuccio” incorporato allo zaino… che mi son dimenticata di tendergli sulla testa. Una passante mi aiuta a metterglielo perché io sono totalmente impedita nei movimenti, come una tartaruga sulla schiena che cerca di rimettersi sulle zampe. Ringrazio, procedo, spero che lui non abbia preso la broncopolmonite.
Arrivati a destinazione risolvo un dilemma: di solito il terzogenito se ne sta buono in passeggino mentre aiuto gli altri due a mettere le giacche negli armadietti e li accompagno in classe e scambio due parole d’ordinanza con le maestre. Ma oggi? Risoluta, appoggio lo zaino, con lui dentro, per terra e faccio quel che devo coi grandi. Lui, immobile. Lo tengo vicino a me nelle varie operazioni e mentre slaccio lampo e cambio stivali con scarpe da ginnastica ce l’ho sempre nella coda dell’occhio. E niente, lui sempre lì, impagliato. Respira ancora, questo sì. Si guarda intorno attonito, anche.
Ciao ciao ai grandi e si torna a casa. Visto che il terzogenito è così tranquillo, me la prendo comoda. Cammino piano, assaporo il momento. Prendo due cose al supermercatino vicino casa. Certo che lui è proprio tranquillo. Molto tranquillo. La cassiera indicandolo con un sorriso sussurra: «Si è addormentato». Qualsiasi sia la stranezza cui li sottopongo, non è strana abbastanza da spaventarli o agitarli o fermarli se ci sono io. Io “diversamente organizzata”. Io “anche l’improvvisazione va bene”. Io “ho solo due mani”. “Appoggiarli” un attimo nel portabagagli della macchina mentre estraggo dal medesimo il passeggino; far loro il bagno nel lavandino della cucina invece che nella vasca perché lì, nell’agriturismo in Toscana dove siamo in vacanza, c’è solo la doccia e loro non stanno ancora in piedi e allora è comodo il lavandino; lanciarli per aria e riprenderli al volo solo per farli ridere un po’.
Nel tragitto alcuni che mi incrociavano sorridevano, altri scuotevano la testa e/o abbassavano lo sguardo; in altri ancora ho visto persino una tenera incredulità come se desiderassero tornare piccini per essere anche loro portati così o avere ancora spalle forti (le mie, per altro, a casa m’han fatto male per un po’) per portare qualcuno così.