Molto spettacolo per nessuna giustizia. La tragica aleatorietà dei processi per mafia in Italia

Di Maurizio Tortorella
14 Novembre 2015
L’assoluzione (l’ennesima) di Mannino per la “trattativa” e la condanna di Gammuto per Mafia capitale lasciano un sapore di indefinito

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Due sentenze opposte, quasi simultanee, danno un po’ il senso dell’anomalia giudiziaria italiana. Ti fanno capire che in questo Paese la giurisdizione di primo grado, ormai, è davvero appesa a un filo. Hai il 50 per cento di possibilità: ti va bene, ti va male. Poi c’è il processo d’appello, la Cassazione, il tempo che passa. La vita che sfugge.

Gran parte della vita, per l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, è trascorsa proprio nei tribunali della Sicilia: il 4 novembre una giudice palermitana l’ha assolto per l’ennesima volta per non avere commesso il fatto in un processo abbreviato (che in realtà è durato la bellezza di 23 mesi!), stralciato dal procedimento-monstre sulla presunta trattativa fra Stato e mafia.

Lì gli imputati sono una decina tra capimafia, ex ufficiali dei carabinieri e politici, accusati di avere negoziato la fine delle bombe mafiose in cambio di un alleggerimento del regime del carcere duro, il famoso “41 bis”. I critici sono convinti che quello di Palermo, avviato dall’ex pm Antonio Ingroia, sia in realtà un processo più storiografico che penale. Per Mannino la Procura aveva chiesto 9 anni di reclusione: lo accusava di avere fatto pressioni nel 1992 sui carabinieri del Ros perché avviassero un dialogo con certi boss.

[pubblicita_articolo]L’assoluzione piena, dura, secca, sembra smontare l’accusa dalle fondamenta non solo per lui, ma per tutti gli imputati: se Mannino non è colpevole, perde forza l’ipotesi del conclamato reato di “minaccia a un corpo politico dello Stato”, al quale i pm palermitani hanno attorcigliato la loro inchiesta. Si vedrà ora quale sarà il riverbero di questa assoluzione (e soprattutto delle sue motivazioni) sul più grande processo palermitano sulla “trattativa”.

A Roma, il 3 novembre è arrivata un’altra sentenza anticipata. In questo caso per un imputato minore, finito nella grande inchiesta su “Mafia capitale”: Emilio Gammuto, accusato dalla Procura di Roma di corruzione e di associazione mafiosa, è stato condannato a cinque anni e quattro mesi di carcere per entrambi i reati. La sentenza arriva in uno stralcio del processo-monstre che intanto è iniziato il 5 novembre contro altri 46 imputati, 20 dei quali in prigione: Gammuto, come Mannino, è stato processato in anticipo rispetto al gruppone dei suoi colleghi perché ha scelto la formula del procedimento abbreviato. E ora la sua condanna (arrivata quasi un anno dopo l’emersione dell’inchiesta) pare confermare l’impianto accusatorio, che pure è stato duramente criticato da chi sostiene che l’associazione criminale che gravitava attorno a Salvatore Buzzi e a Massimo Carminati non possa essere neppure lontanamente paragonata alla mafia. Non ci sono le pistole, l’omertà, l’organizzazione verticistica, il vincolo associativo… Leggeremo le motivazioni. Poi si vedrà nel “processone”, con gli altri imputati. E si vedrà anche che cosa accadrà in appello e in Cassazione.

Una mano di poker
Ma vogliamo dirla tutta? Questa giustizia all’italiana non convince. La sua segmentazione spezza logiche e continuità. Non ti dà un senso di affidabilità. È tutto sfarinato, lascia un sapore di indefinito, di aleatorio, quasi di casualità. Forse è brutto dirlo, sarà anche sconveniente: a volte, però, la partita tra assoluzione e condanna sembra una lotteria, una mano di chemin-de-fer, una partita a poker. Tra processo di primo grado e di appello, poi, il ribaltamento, in un senso o nell’altro, è frequentissimo: oltre il 60 per cento dei casi. È forse questo l’effetto più concretamente nefasto della giustizia spettacolo.

@mautortorella

Foto Ansa

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