Uccisi da indonesiani un terzo di tutti i missionari martiri del ’99 Il primo missionario cattolico ucciso nell’anno Due-mila è un indonesiano: Fides, l’agenzia di stampa della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, ha dato notizia che all’alba del 2 gennaio scorso sulla spiaggia di Ende, nell’isola di Flores (a ovest di Timor), è stato trovato il cadavere di Frater Yosef Jami, 28enne seminarista dei missionari della Società del Verbo Divino, vittima di una misteriosa aggressione. Allo stato attuale non vi è nessun indizio che colleghi il delitto ad avvenimenti di più vasta portata come i sanguinosi scontri fra cristiani (protestanti) e musulmani nelle isole Molucche e le manifestazioni di Giakarta nel corso delle quali oltranzisti musulmani hanno invocato il jihad, la “guerra santa”. Il nesso simbolico è però eclatante. Da Fides apprendiamo inoltre che dei 31 operatori ecclesiali uccisi in terra di missione nel corso del 1999 ben 9 hanno trovato la morte in varie regioni di Timor Est per mano di milizie pro-indonesiane o dell’esercito di Giacarta fra il 6 e il 25 settembre scorsi.
La crisi delle Molucche è scoppiata circa un anno fa, allorchè ad Ambon, capitale dell’arcipelago, sono iniziati gli scontri fra protestanti e musulmani, con annesse distruzioni di edifici sacri e proprietà private. Le vittime sarebbero fino ad oggi 1.700 secondo le fonti ufficiali, 4 mila secondo alcune organizzazioni per i diritti umani. Prima di allora l’arcipelago era descritto come un modello di convivenza fra cristiani e musulmani. Per ragioni storiche, le Molucche erano fino a pochi anni fa l’unica regione dell’Indonesia, oltre all’occupata Timor Est, caratterizzata da una maggioranza religiosa cristiana. La forte immigrazione degli ultimi due decenni dalle altre isole ha modificato il dato, e oggi si deve piuttosto parlare di un testa a testa: dei poco più di 2 milioni di abitanti dell’arcipelago il 54 per cento sono ora musulmani, il 44 per cento cristiani con una netta dominante protestante (i cattolici infatti sono solo il 7 per cento).
Molucche insanguinate:
manodopera islamica,cervelli militari Le violenze degli ultimi mesi, che hanno risvegliato gli spiriti bellicosi dei musulmani di Giacarta, sono state genericamente attribuite alla crescente pressione migratoria, mal tollerata dalla popolazione indigena. Ma la spiegazione è in realtà più sofisticata, come fa intendere una dichiarazione del vescovo cattolico di Amboina mons. Petrus Camisius Mandagi: “Il presidente Wahid non può dire che il conflitto di Ambon è una mera questione interna, che spetta agli ambonesi risolvere, perché vi sono forze esterne che hanno provocato i disordini. Il prolungamento del conflitto è stato pianificato fuori dall’isola”. In realtà il musulmano moderato Wahid e il vescovo cattolico Mandagi condividono la stessa diagnosi della crisi molucchese, ma si differenziano per la soluzione che propongono. Entrambi sanno che a soffiare robustamente sul fuoco delle violenze interreligiose sono i militari, decisi a mantenere viva la tensione ai quattro angoli dell’Indonesia per poter continuare a giocare un ruolo di primo piano nella vita politica. Wahid ritiene di poter controbattere questa strategia rifiutandosi di proclamare lo stato di emergenza nell’arcipelago, che darebbe mano libera alle forze armate, e insistendo sul carattere locale del conflitto; mons. Mandagi, invece, propone il modello timorese: l’esercito indonesiano dovrebbe lasciare le Molucche e fare spazio ad una forza armata internazionale. Resta, al di là di tutto, un dato politico estremamente preoccupante: le forze armate indonesiane, che nel passato avevano legittimato il proprio ruolo politico in nome della laicità, oggi puntano sull’eccitazione del radicalismo islamico per difendere le posizioni di potere conquistate e conservate nel sangue.