

A Schladming, in Austria, nel corso dello slalom di Coppa del Mondo la modella americana Kinsey Wolanski fa irruzione sulla pista seminuda mostrando un cartello di omaggio a Kobe Bryant, morto in un incidente elicotteristico insieme a una figlia e altre sette persone appena tre giorni prima. L’exploit della formosa 24enne californiana ha suscitato solo commenti divertiti sui media dell’informazione. Sono solo gli ultimi esempi di una degenerazione dei modi e dei contenuti della comunicazione che ci sta investendo nell’indifferenza generale.
Cosa sta succedendo? Dove siamo andati a finire? Sono d’accordo con Nicholas Carr che questo e altri eventi della comunicazione dello stesso segno, anche se molto meno vistosi, hanno un forte legame con fenomeni di appiattimento e standardizzazione connessi alle tecnologie internettiane. Nicholas Carr è il saggista e divulgatore scientifico autore di Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello, e in un suo recente intervento ha spiegato che ci troviamo di fronte a un duplice fenomeno di context collapse e content collapse: collasso del contesto e collasso del contenuto. Entrambi sono conseguenza dell’imporsi dei social media. Il concetto di context collapse è stato evidenziato per la prima volta dieci anni fa da Michael Wesch. Lui e altri sociologi e teorici della comunicazione, dice Carr, già allora spiegavano che le reti sociali
«stavano dissolvendo i confini fra i gruppi sociali che per lungo tempo avevano dato forma alle relazioni e alle identità personali. Prima dei social media, si parlava a “pubblici” differenti – membri della famiglia, amici, colleghi e così via – in modi differenti. Si modulava il tono della voce, le parole, il comportamento e persino il proprio aspetto per adattarsi allo specifico “contesto” sociale nel quale ci si trovava (luogo di lavoro, casa, scuola, locale notturno, ecc.) e poi si riaggiustava la presentazione di se stessi quando ci si trasferiva in un altro contesto. In un social network (…) tutti questi differenti contesti collassavano in uno solo. Ogni volta che si postava un messaggio o una fotografia o un video, poteva essere visto dai propri amici, dai propri genitori, dai propri colleghi, dai propri capi e dai propri insegnanti, per non parlare della massa amorfa nota come il pubblico generico. E poiché il post era registrato, poteva essere visto in futuro da un altro pubblico allo stesso modo del pubblico di oggi. Quando la gente ha compreso che non poteva più presentare versioni di se stessa adattate ai diversi pubblici – ormai esisteva un solo pubblico – hanno dovuto affrontare una nuova specie di crisi d’identità».
Secondo Mark Zuckerberg questa conseguenza dell’uso dei social media era molto virtuosa, perché «avere più identità per se stessi è un esempio di mancanza di integrità», disse in un’intervista nel 2010. In realtà si tratta di una vera follia illuminista, di un processo omologatore disumanizzante, perché nel proprio dell’umano c’è anche la variabilità dei registri espressivi, c’è il diverso senso che gesti e parole assumono in contesti diversi. Che ci siano contesti diversi dipende semplicemente dal fatto che gli uomini vivono nel tempo e nello spazio e che sono esseri culturali: cose che la virtualità delle tecnologie elettroniche, divenute cultura dominante, tende a cancellare. D’altra parte lo stesso Zuckerberg ha permesso che su Facebook si potessero creare i gruppi chiusi, le chat fra due persone e le chat di gruppo, ecc.: la pluralità dei contesti, cacciata dalla porta, è rientrata dalla finestra.
Ma il collasso dei contesti, che indubbiamente c’è stato e non è interamente recuperato dalla creazione di una pluralità di contesti all’interno dei social media, ha indotto un altro, altrettanto grave collasso: quello dei contenuti. Che è il motivo per cui nessuno o quasi si scandalizza più di fronte alla pruriginosa strumentalizzazione del lutto per Kobe Bryant sulle nevi austriache. Non solo: osiamo dire che è il medium rappresentato dalla comunicazione tramite computer come tale che standardizza i contenuti verso il basso.
Lo lascio dire a Carr con le sue stesse parole, per non prendermi il merito di una riflessione che è tutta sua:
«Il collasso dei contenuti sarà l’eredità più coerente dei social media. Il collasso dei contenuti, secondo la mia definizione, è la tendenza dei social media a confondere le tradizionali distinzioni fra tipi di informazione che un tempo erano distinti – distinzioni di forma, registro, senso e importanza. Man mano che i social media diventano il principale canale per le informazioni di ogni genere – corrispondenza personale, notizie e opinioni, intrattenimento, arte, istruzione e così via – essi omogeneizzano quelle informazioni così come le nostre reazioni ad esse. I contenuti hanno cominciato a collassare non appena si è cominciato a distribuirli attraverso i computer. La loro digitalizzazione ha reso possibile distribuire informazione che avrebbe richiesto media specializzati – quotidiani e periodici, dischi di vinile e audiocassette, radio, tv, telefoni, cinema, ecc. – attraverso un solo medium universale. Nel corso di questo processo gli standard formali e le gerarchie organizzative inerenti ai vecchi media hanno cominciato a scomparire. Ricordo qualche anno fa di essere rimasto colpito dalla casualità dei titoli che scorrevano attraverso il mio lettore RSS. Guardavo l’ultimo aggiornamento delle notifiche del New York Times, per esempio, e leggevo cose come queste: “Si teme crollo diga causa alluvioni nel Midwest”; “Le nuove scarpe sportive della Nike diventano oggetto del desiderio”; “Britney Spears decide di rigare dritto”; “Numerosi morti per un’autobomba a Baghdad”; “Una nuova ricetta piccante per la zuppa di fagioli”; (…). L’intera struttura organizzativa del giornale, la sua architettura epistemologica era stata rottamata. La sezione notizie (con le sue sotto-sezioni locale, nazionale ed internazionale), la sezione sport, la sezione arti, la pagina dei commenti: tutto era stato passato in un tritadocumenti, e poi gettato in una galleria del vento. Ciò che appariva sullo schermo era un guazzabuglio, una mescolanza dell’alto col basso, dello stupido con l’intelligente, del tragico col banale. (…) L’ascesa dello smartphone ha completato il collasso dei contenuti. La taglia minima dello schermo di questa apparecchiatura ha ulteriormente compattato tutte le forme di informazione. Le notifiche istantanee e gli infiniti scorrimenti che sono diventati i requisiti del design di base del cellulare, richiedono che tutte le informazioni siano presentate in modo tale che siano usufruite in un colpo d’occhio, confondendo ulteriormente le vecchie distinzioni fra tipi di contenuto. Ora tutte le informazioni appartengono a una singola categoria, e tutto si riversa attraverso un unico canale».
Questo non succede solo sui cellulari: l’omologazione e la casualità nei flussi informativi riguardano ormai tutti i media. Nelle bande che scorrono sotto i notiziari di Sky e di Mediaset si succedono notizie di cronaca nera e di cronaca rosa, politica interna e gossip, politica internazionale e musica pop. Oggi nei notiziari Sky scivolavano alternate le notizie sul diffondersi del coronavirus cinese e quelle su Valentino Rossi al quale la Yamaha non rinnoverà il contratto.
Nella Metropolitana milanese i servizi informativi sono gestiti da Telesia, una media tech company esperta in video comunicazione. Che così presenta le sue trasmissioni sugli schermi di grande formato posizionati sulle banchine dove i passeggeri attendono i treni:
«Una tv di servizio essenziale che offre ogni giorno ai passeggeri un palinsesto ricco di contenuti, aggiornati in tempo reale e scelti per soddisfare le esigenze di un pubblico attivo in continuo movimento. Le informazioni di servizio (…) si alternano ad aggiornamenti su attualità, intrattenimento e pubblicità».
Questa omologazione generalizzata, questa standardizzazione della presentazione di notizie diverse per genere, importanza e registro non può non provocare una generale insensibilità nei riguardi delle combinazioni più stonate e dei collegamenti più offensivi. Niente più ci offende, nemmeno la memoria di un defunto usata per farsi pubblicità, perché tutto è stato omologato, omogeneizzato, abbassato. Nel mondo della violenza informativa generalizzata vale tutto.
Foto Ansa
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