“Un risultato storico” secondo il presidente del Consiglio: aumento del Pil dell’1,4%, diminuzione del rapporto tra deficit e pil (dal 2,8 all’1,9%, diminuzione del rapporto tra debito pubblico e pil (dal 116,3 al 114,9%). I dati Istat relativi alla situazione economica italiana nel 1999 hanno scatenato gli entusiasmi del capo del governo e dei suoi ministri economici che subito si sono affrettati a sottolineare che è tutto merito del governo “e degli effetti delle sue politiche”.
Professor Martini, le sembra giustificato l’entusiasmo di palazzo Chigi? Gli unici due elementi positivi che emergono da questi dati sono l’aumento degli investimenti (+4,4%) e quello dei consumi interni (+1,5%), i quali fanno sperare di poter uscire dalla stagnazione in cui siamo rimasti fino ad oggi. Ma in entrambi i casi il governo c’entra poco: gli aumenti degli investimenti non dipendono da politiche governative, ma semmai dalla necessità degli imprenditori di rinnovarsi per restare nel mercato, mentre l’aumento dei consumi è dovuto al consumo di beni durevoli dopo anni di rinvii. In ogni caso rimaniamo davvero il fanalino di coda dell’Europa con una delle crescite del prodotto interno lordo più basse d’Europa e il dato preoccupante del calo delle esportazioni che certo non è un segno di salute: vuol dire che nei settori più innovativi stiamo perdendo terreno. Inoltre, per quanto riguarda i conti pubblici, rimane la voragine del debito che in rapporto al pil, secondo i parametri di Maastricht, non dovrebbe superare il 60% ed è invece al 114,9 per cui restiamo il paese più indebitato d’Europa. Per il resto gli altri risultati sono stati ottenuti con un aumento straordinario della pressione fiscale, cioè facendo leva su meccanismi esattamente opposti a quelli che sarebbero richiesti per rilanciare un’economia. Non solo, a fronte di una pressione fiscale che sta diventando insopportabile, l’Italia ha una qualità di servizi tra le più scadenti in Europa. E, dato che l’aumento del petrolio interessa tutti i paesi, l’inflazione in Italia è più alta che nel retso della Ue proprio a causa di inefficienza nel comparto dei servizi.
L’economia italiana avrebbe dunque bisogno di una drastica riduzione delle tasse e, a parità di spesa, di un miglioramento della qualità dei servizi. Di tali interventi strutturali non c’è traccia nell’attività di questo governo.
I dati parlano anche di una crescita complessiva di tutta l’economia mondiale. Pensa che questo, pur con i risultati contrastanti che la caratterizzano, possa aver aiutato anche l’impresa Italia? Diciamo che l’Italia risente sia dell’aspetto di un’economia mondiale che, trainata dagli Stati Uniti, tira, sia degli aspetti negativi di un’inflazione che aumenta per la salita del prezzo del greggio. Ma, appunto, si tratta di fattori che nulla hanno a che fare con l’azione del governo.
La quale si è limitata all’aumento delle tasse riducendo così la spinta alla crescita dei consumi e degli investimenti.
L’aumento del prezzo del petrolio e la svalutazione dell’Euro nei confronti del dollaro che conseguenze potrebbe avere sulla nostra economia? La prima conseguenza è che la nostra bilancia commerciale rischia di andare in deficit perché il costo delle nostre importazioni aumenta più di quello delle esportazioni. All’inizio potrebbe anche verificarsi un piccolo vantaggio dovuto dalla possibilità di aggredire il mercato con prezzi più bassi, ma alla lunga queste condizioni porteranno a una restrizione della base produttiva perché le risorse verranno assorbite dal costo delle importazioni.