Marcorè: «Porto al cinema “Zamora” di Perrone perché volevo una storia che facesse bene all’anima»
4 aprile 2024: una data che tutti i tempisti dovranno segnarsi in agenda, perché corrisponde al giorno dell’uscita nei cinema di Zamora, primo film da regista di Neri Marcorè che si intitola esattamente come il primo romanzo di Roberto Perrone e non per caso, poiché proprio al romanzo di Perrone è ispirato.
Per l’occasione, nei giorni scorsi HarperCollins ha lanciato anche una nuova edizione del libro (la prima edizione Garzanti è come la leggendaria figurina di Pizzaballa: introvabile). Si consiglia vivamente la rilettura perché per un tempista non c’è soddisfazione maggiore del ritrovare «uno dei più bei romanzi italiani degli ultimi trent’anni» (Luca Doninelli dixit) e insieme constatare che una star come Marcorè abbia voluto trarne un film sorprendentemente fedele. Il famoso Marcorè in combutta con il nostro Fred Perri cinico e baro, chi lo avrebbe mai detto?
Nei panni di quest’ultimo nel film c’è lo stesso Marcorè, che ha accettato volentieri di parlare con Tempi perché «anche per me Perrone era un amico».
Al Corriere della Sera ha raccontato che il progetto covava da tempo, che risale addirittura a vent’anni fa, epoca della prima uscita del libro. Ci racconta questa storia e il suo rapporto con Roberto Perrone?
Sì, l’idea risale a vent’anni fa. Il primo progetto, sempre cinematografico, era diverso per molti aspetti dal film attuale, ma anche allora io ero coinvolto. Poi la cosa fu accantonata, ma a me è sempre rimasta “in canna”, come si suol dire, perché la storia di Zamora mi piaceva moltissimo: ritrovavo me stesso in quel personaggio, Walter Vismara, che vent’anni fa avrei potuto interpretare io. Insomma a distanza di tempo ho ritirato fuori quell’idea che alla fine ha convinto Agostino [Saccà, fondatore della casa di produzione Pepito, ndr]. Mi ha detto: “Va bene, il film lo produco ma solo se tu fai la regia”.
La sua prima volta “dietro la cinepresa”.
Non l’avevo mai fatto, anche se non mi ha presto totalmente in contropiede. Da tempo pensavo che mi sarebbe piaciuto misurarmi con questa disciplina.
E in tutti questi anni trascorsi dalla prima idea alla realizzazione del film lei e Perrone siete diventati amici?
Come no, io ho letto tutti suoi romanzi e tra noi c’era grande stima, c’era amicizia. Ci siamo anche visti diverse volte, per fortuna. Mi piaceva tantissimo come scriveva. Per dirne una: voi avrete in mente Annibale Canessa, protagonista di diversi romanzi di Perrone.
Annibale “Carrarmato” Canessa, certo
Ecco, lui è assolutamente un altro personaggio da film. Anche Un odore di Toscano è molto evocativo. Io quando leggo una storia me la visualizzo, sempre. Forse è una mia deformazione professionale, o magari invece capita a tutti. Fatto sta che c’è chi scrive in maniera più “cinematografica” e chi meno. Roberto descriveva ambienti, facce e situazioni in maniera talmente vivida che non potevo fare a meno di immaginarmi già tutto come un film. Al progetto di Zamora tenevo particolarmente anche per questa stima verso di lui. Poi come spesso capita nel cinema il percorso è stato lungo: siamo partiti a scrivere nel 2021 e abbiamo finito di montare il film un anno fa. Arriva nelle sale soltanto adesso per via delle scadenze già fissate dal distributore.
E Perrone quanto è riuscito a vedere del film?
Purtroppo poco. Ha potuto leggere la sceneggiatura e gli è piaciuta: mi chiamò dall’ospedale commosso. Io gli mandavo ogni tanto delle clip e dei saluti dal set, ho cercato di coinvolgerlo, specie in quella fase complicata per lui, che purtroppo è finita male. Comunque era soddisfatto di tutto quello che gli mandavo. Il rimpianto è non essere riuscito a mostrargli il film completo, se n’è andato troppo rapidamente.
La dicitura ufficiale recita che il film è “liberamente ispirato” al romanzo, ciononostante è parecchio fedele alla fonte di ispirazione.
Sì, assolutamente: la storia è quella. Poi, certo, per trasformarla in film bisognava arricchirla con nuovi personaggi ed è quello che abbiamo fatto.
Personaggi neanche troppo secondari: i genitori del Vismara, per esempio. Ma soprattutto tante aggiunte comiche davvero divertenti. Su tutte, i personaggi di Ale e Franz e di Giovanni Esposito, ma anche la carrambata di Marino Bartoletti.
Marino è un amico, gli ho fatto fare l’esordio al cinema. Accanto ad altri esordi come quello di Giulia Gonella o quello di Alberto Paradossi, anche se per lui non è un esordio in assoluto ma una prima nel ruolo di protagonista.
Come sono nate le idee delle aggiunte comiche? Aveva per le mani una storia già divertente di suo.
Sono le cose che fanno divertire me. Mi appartengono molto. È il mio gusto da scemo che metto in tante cose che faccio.
Nel film, come nel libro, per forza di cose si parla continuamente di calcio. Ma lei dice che non è un film sul calcio.
Non lo è. Non è un film su Milano, non è un film sugli anni Sessanta, non è un film sul calcio. È la storia dei movimenti dell’anima del protagonista e degli altri personaggi. Il calcio è un pretesto attraverso il quale il protagonista può tirare fuori il suo carattere oppure soccombere ai soprusi del suo capo o alle angherie di Gusperti.
Un grande tema di Zamora è la necessità di rialzarsi anche dopo le peggiori cadute. A giudicare dalla sua carriera sfavillante, non si direbbe un problema suo. O lo è?
Nella professione per fortuna non ho avuto grandi cadute. Ma poi c’è il privato e i momenti difficili ci sono per chiunque. Tutti noi affrontiamo fallimenti e delusioni. Nel caso di Walter Vismara il problema di rialzarsi non riguarda tanto la partita di calcio aziendale, quella si può vincere o perdere, non importa granché. Riguarda soprattutto la scoperta di non essere stato all’altezza di Ada, di non essere maturo sentimentalmente: dovrà lavorare molto su se stesso, ripartire dal no che riceve, dalla porta che gli si chiude davanti, farne una lezione di vita per guardare al futuro con un atteggiamento nuovo. È questo il vero centro della storia, insieme ai personaggi femminili, le colonne portanti della vicenda. Sono loro che accompagnano il protagonista, tra un sostegno, uno schiaffo in faccia, un’esortazione a prendere la vita in mano e a essere felice.
L’altro pilastro è l’amicizia, la cosa più importante in Zamora insieme all’amore e al fòlber. La sequenza di svolta è probabilmente il dialogo tra Vismara e Cavazzoni nel momento in cui i due si rendono conto di essere diventati amici. Non è così?
È vero. Walter è sempre accompagnato dalla solitudine, non lo vediamo frequentare gente, non ha amici. Il trasferimento a Milano, il contraccolpo che subisce a livello sia sentimentale che lavorativo lo porterà a cercare l’aiuto di Cavazzoni, ma cercando una cosa ne troverà altre. Gli si aprirà davanti la possibilità di vivere una vita diversa, con l’amicizia di un uomo più grande di lui che lui stesso aiuterà a risollevarsi grazie al suo esempio di uomo perbene.
Una osservazione forse dettata da un pregiudizio: Zamora è un film stranamente positivo. “Stranamente” perché nel cinema italiano c’è spesso una vena di malinconia che lascia l’amaro in bocca; qui invece lo spettatore non esce intristito, anzi: si esce rallegrati dall’idea che la vita può essere bella. Era sua intenzione?
Mi fa piacere che lo dica. Tanti invece hanno visto e sottolineato nel film “una venatura malinconica”. Che c’è, per carità, ma è una malinconia di rimbalzo per i bei tempi andati degli anni Sessanta. Di per sé in realtà Zamora è una storia molto positiva con un finale che – come mi confermano le su parole ma non solo – lascia un sorriso sul viso dello spettatore. Volevo un film come le commedie degli anni Sessanta, dove comicità e dramma stanno una accanto all’altro. Ambivo a un film che facesse bene all’anima, perché di motivi per intristirci ne abbiamo fin troppi. Non cercavo evasione, ma una storia positiva sì. Se ci sono riuscito sono contento.
A chi si è ispirato maggiormente tra i tanti registi con cui ha lavorato?
Guardi, in realtà sul set le ispirazioni contano fino a un certo punto. Ci si trova piuttosto a reagire a quello che ci si trova davanti, all’esigenza di portare a termine una scena e di farlo secondo la propria sensibilità. Ovvio che ho messo in campo l’esperienza accumulata nei tanti film e fiction che ho fatto come attore. E sicuramente ha ragione chi ha visto nel film qualcosa di Pupi Avati [il regista che con Il cuore altrove lanciò definitivamente Marcorè nel cinema, ndr], ma in Zamora c’è soprattutto il mio gusto personale che ho sviluppato nutrendomi del tanto cinema che ho fatto ma anche del cinema che ho guardato. Quindi c’è qualcosa di Avati certamente, ma certamente anche di Dino Risi, Mario Monicelli, Ettore Scola. O Franco Brusati e il Nino Manfredi di Pane e cioccolata, richiamato in Zamora dal personaggio di Giovanni Esposito… Insomma tutti i film che mi sono piaciuti – e anche quelli che non mi sono piaciuti – hanno contribuito a definire i miei “contorni”.
Il fatto che Zamora è ambientato negli anni Sessanta le ha lasciato più libertà nel trattare con ironia certi temi che oggi sono quasi tabù? I rapporti tra uomini e donne per esempio, ma anche a quelli tra milanesi e meridionali.
Sì, penso anche questo. È veramente una follia questa epoca ipercorretta in cui non si può dire niente senza che qualcuno si offenda. Non ha senso: la vita non è fatta di censure. È fatta di esperienze, quindi gioie ma anche errori. Cercare di costringerla tutta in quello che “si può” e “non si può” fare non ha senso. Raccontare una storia, scrivere un libro in cui si mettono in campo le passioni umane – che sono fatte di cose belle e cose brutte, aspetti positivi e aspetti negativi – e farlo evitando di dare voce alla parte che ci piace meno, la meno presentabile, sarebbe un tradimento. Non ha senso censurarla e non ha senso rappresentare le cose seguendo questa specie di manuale Cencelli delle tipologie umane. È una degenerazione dell’intelligenza e del buon senso.
Questa libertà nel film si nota. C’è perfino gente che fuma…
Sarebbe ben curioso se qualcuno venisse a fare le pulci su cose che in quegli anni si facevano: non si può rappresentare gli anni Sessanta con le categorie che contraddistinguono l’epoca attuale. Anche se dovessi raccontare l’epoca attuale, comunque, non mi farei il problema di essere politicamente corretto. Sono il buon senso e il buon gusto che guidano la selezione degli elementi della storia, non certo il consenso di chi guarda.
Ultima cosa. Nel film si parla solo di Inter e Milan, ma in questa fase lei come vive il suo essere juventino?
Eh, momento doloroso. Specie dopo nove anni vissuti col vento in poppa in cui ci siamo lasciati viziare da continui successi che quasi piovevano dal cielo come manna. Che dire? Il calcio è fatto di cicli, i successi torneranno. E comunque è vero che in Zamora si parla solo di Inter e Milan, soprattutto della “grande Inter” di quegli anni, ma da juventino mi sono preso la mia piccola soddisfazione. Chi vedrà il film se ne accorgerà.
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