Ma non dite che Strada era come Madre Teresa
Le reazioni e i commenti che si sono letti in queste ore in ambito cattolico (non tutto, Deo gratias) alla morte di Gino Strada, offrono l’ennesima conferma di quanto grande sia la confusione e di come il cattolicesimo in generale stia (mal)messo.
Sia chiaro a scanso di equivoci: qui non è in discussione l’operato del fondatore di Emergency, che per quanto mi riguarda è – da un punto di vista meramente umano – del tutto encomiabile e che ha tutta la mia ammirazione (diverso il discorso sulle sue idee politiche, alquanto discutibili e in ogni caso lontane anni luce dalle mie).
Ciò che qui interessa stigmatizzare è l’atteggiamento di quanti, in ambito cattolico, si sono sperticati in elogi e ricordi celebrativi di Gino Strada per la sua instancabile opera a servizio dei più poveri, degli ultimi, dei più bisognosi, quasi come se Strada abbia incarnato, pur muovendo da una posizione atea, più e meglio di tanti che si definiscono tali solo a chiacchiere le virtù del cristianesimo. Queste essendo, ovviamente secondo tale prospettiva, la lotta contro ogni ingiustizia e il mettersi sempre e comunque dalla parte dei poveri.
Distanza di prospettiva
Posizione legittima, intendiamoci. Che tuttavia, piccolo particolare, non ha nulla a che vedere col Vangelo. Motivo per cui risultano oltremodo irricevibili paragoni e analogie che pure qualcuno ha azzardato tra l’opera di Gino Strada e quella di Madre Teresa di Calcutta, come se il primo sia stato una versione laica della seconda. A ben vedere, dietro un’attività che aveva senza dubbio più di un punto di contatto a livello esteriore, pratico, vi era una distanza abissale di prospettiva.
Ed è esattamente questo il punto che fa emergere la miopia di quanti, muovendo da una posizione cattolica, hanno inteso proporre Gino Strada come fulgido esempio di un cristianesimo senza Cristo, valido tanto quanto (o forse di più, con un di più dato da quella coerenza troppo spesso assente in tanti cattolici di facciata) il cristianesimo dei santi.
Dimensione orizzontale della fede
Ci sono due ordini di questioni, che in realtà sono due facce di una stessa medaglia.
Da un lato, la ricezione della scomparsa di Gino Strada in ambito cattolico non ha fatto altro che confermare quello che è un problema più profondo e che non nasce certo ora, ossia la dimensione oramai quasi del tutto orizzontale della fede, dimensione ben riflessa anche nella maggior parte dei discorsi (per tacere dell’omiletica) che si sentono oggi nella Chiesa. Siamo passati dall’uomo a una dimensione di Marcuse, alla Chiesa a una dimensione (di K. Rahner & Co).
Una Chiesa che vola rasoterra, tutta presa dalle cose di quaggiù come se queste fossero più importanti di quelle di lassù, e dove l’accento viene sovente posto più sull’azione, sulla prassi, insomma più sulle opere che sulla fede. Come se, magari dando questa per scontata (vaste programme), ci si dovesse preoccupare piuttosto di tradurre in cose concrete il messaggio evangelico, dandosi da fare in primis per sanare le storture e i mali della società.
Cristianesimo solo sociale
Al punto che lo spartiacque tra la salvezza e la dannazione (ammesso che quest’ultima sia ancora contemplata) sia il maggiore o minore grado di “bene sociale” che uno alla fine avrà prodotto. Prevengo l’obiezione: ma occuparsi delle cose di lassù non esclude, anzi, implica occuparsi anche delle cose di quaggiù, dal momento che Dio si è incarnato e la Chiesa cammina nella storia! Vero, ci mancherebbe.
Resta però il fatto – e questo è il secondo aspetto – che troppo spesso i fautori di un cristianesimo tutto declinato al sociale o, peggio, strumento di riscatto dall’oppressione e dall’ingiustizia (si pensi ai disastri delle varie teologie della liberazione per non dire degli sfaceli arrecati da una lettura fortemente politicizzata della celebre “opzione per i poveri”) dimenticano o fanno finta di dimenticare che il cristianesimo stesso si fonda sulla più ingiusta delle ingiustizie: quella della croce. Vorrà dire qualcosa?
La croce dello scandalo
L’errore di fondo di quei cattolici che oggi si sperticano in elogi e incensazioni nei confronti di Gino Strada tanto quanto lo facevano ieri per altri, consiste nell’assumerne la stessa prospettiva – ripeto oggi di Strada, ieri e domani di altri – ossia quella secondo cui la storia deve essere emendata; che non è giusto che esistano disparità e diseguaglianze (e dire che non c’è cosa più ingiusta dell’eguaglianza); che si debba porre riparo e rimedio alle tante, troppe storture e brutture di questo mondo; che si debba opporre resistenza e combattere la sofferenza e il male, in tutte le forme esso si manifesti.
Eppure, san Paolo dice chiaramente “noi predichiamo Cristo e Cristo crocifisso”. Per poi aggiungere: “scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani”. Ora se effettivamente per un ateo, qual era Strada, la croce era motivo di scandalo al punto da indurlo a dare vita a Emergency per curare e dare sollievo a quante più vite possibili (opera rispetto alla quale, lo ripeterò all’infinito, va tutto il mio plauso), è evidente che se la croce scandalizza allo stesso modo anche chi vive in un’ottica di fede, beh la cosa cambia. E parecchio, anche.
Carità spirituale e materiale
Non per nulla in uno dei suoi ultimi lavori, Quando il cielo ci fa segno. Piccoli misteri quotidiani, Vittorio Messori si chiede: «Il Figlio del Dio Padre si sarebbe incarnato e sarebbe morto in croce perché i suoi seguaci facessero ciò che il “mondo” può fare (e sempre più spesso fa) da solo e sovente con successo?». Chiaro che questo non significa starsene con le mani in mano, né tanto meno prediligere certe forme di spiritualità “disincarnate” spesso connotate da un pungente odore di tappo (la fede senza le opere è morta in sé stessa, dice san Giacomo).
Ma, lo ricorda ancora Messori: «…per i credenti in Cristo (che non venne per cambiare governi e leggi bensì, uno a uno, i cuori degli uomini) la carità spirituale deve precedere quella materiale, che altro non è che una conseguenza spontanea della fede: il bien croir, il credere bene, osserva Blaise Pascal, porta necessariamente al bien agir, alle opere buone. Fede e carità sono inscindibili. Ma nell’ordine. Prima la carità per l’anima e per le miserie spirituali, poi la carità per i corpi e per le miserie materiali e le ingiustizie sociali».
Solo il nome
Insomma un conto sono le opere frutto della fede, tutt’altra faccenda sono le opere che nascono più dallo scandalo della croce che da una carità genuina, e che in quanto tali di cristiano hanno solo il nome (per inciso, e per restare in ambito medico: uno che ha saputo cogliere e vivere appieno il giusto rapporto tra fede e opere si chiamava Enzo Piccinini).
L’attitudine propria del cristiano non è quella di recriminare né di ergersi a giudice della storia, ma di convertirsi (auspicabilmente e primariamente al Regno di Dio). È, insomma, importante rimettere le cose nella giusta scala di valori e priorità: prima il Cielo, poi la terra.
Il che comporta la straordinaria attualità dell’esortazione del compianto cardinale Carlo Caffarra: «È d’urgenza drammatica che la Chiesa ponga fine al suo silenzio circa il Soprannaturale».
Perdita di sapore
Potrebbe sembrare scontato che la Chiesa parli del Soprannaturale, in realtà non lo è affatto. O meglio, non lo è più. In (relativamente) breve tempo si è passati – in parte per reazione ma per lo più per una sorta di “mondanizzazione” voluta e cercata da certi ambienti sedicenti cattolici per darsi una patina di modernità – da un eccesso all’altro, da una predicazione forse troppo moralistica sull’aldilà (della serie: se ti comporti bene vai in paradiso, se ti comporti male vai all’inferno) che più che incutere il timor di Dio incuteva il terrore di Dio (che in ottica cattolica col primo non c’azzecca nulla), ad una predicazione dove tutto è stato appiattito e ridotto, come si diceva poc’anzi, alla sola dimensione orizzontale.
Col risultato di una Chiesa che scimmiottando e rincorrendo chi, in ambito laico, sa fare di più e meglio cose che non corrispondono alla sua missione (salus animarum suprema lex, do you remember?), non “sala” più e, anzi, sta progressivamente e inesorabilmente perdendo il suo sapore di modo che anche quel mondo cui sovente ammicca non sa che farsene. Sarà il caso di cambiare rotta?
Foto Ansa
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