Londra. Uno arriva a Londra e sa, in cuor suo, che passerà il resto del suo soggiorno a fare confronti, a sospirare d’invidia non malevola di fronte a tanta pragmatica normalità, a sentirsi contemporaneamente rinfrancato e abbattuto dal fatto che a un’ora e quaranta di aereo da Milano esista una società che sa di dover garantire a tutti pari opportunità ma che poi si ritira in buon ordine lasciando che sia l’individuo a scegliere, a operare, a essere soggetto attivo per il bene proprio e comune. Si sa, è così. Quindi salire la rampa di scale che dal terminal di Gatwick porta alla stazione ferroviaria adiacente diventa di volta in volta sempre più una sorprendente routine del rimpianto. Questa volta, invece, il cartello che annuncia orari e binari di partenza dei treni per Victoria e Clapham Junction è oscurato da un altro, inusuale, quasi ormai atemporale quassù: tube strike. Ovvero, sei milioni di londinesi che quotidianamente prendono la metropolitana per spostarsi, dalle 18.30 di martedì scorso fino alla tarda serata del giorno dopo, hanno dovuto attrezzarsi con autobus, taxi e battelli lungo il Tamigi. Turbato dalla notizia e dal cotè di malcontento popolare degno dei blocchi selvaggi patiti lo scorso inverno dai milanesi, prendo atto della nuova aria: forse anche qui qualcosa scricchiola. Quasi stupidamente soddisfatto per questa piccola e provincialista rivincita, appena giunto in albergo chiedo a Internet di illuminarmi su cosa accade in Italia mentre qui regnano il caos e l’insoddisfazione. Punto. Fine del cortometraggio dal titolo “Tutto il mondo è paese”, fine della strisciante vendetta dell’eterno mangiaspaghetti in ostaggio degli scioperi: titoli di coda, colore che sgrana, dissolvenza e la bobina che sfugge dal proiettore e sibila in una giostra senza luce e senza colore.
Dal Belpaese, infatti, giungono echi di malcontento sempre crescenti all’interno della maggioranza, si parla di “resa dei conti”, di crisi di governo, abbandoni di massa della maggioranza, addirittura di elezioni anticipate come esercizio di stile di un centrodestra campione di masochismo a ostacoli. Ecco, tutto azzerato. Già, perché nonostante questo sciopero maledetto sia stato uno smacco per il fresco rieletto sindaco laburista di Londra, Ken Livingstone, l’italianizzazione della Gran Bretagna resta confinata ai diffusi mugugni anti-arbitrali per la decisione dello svizzero Meier di annullare il gol di Campbell nella semifinale contro il Portogallo. La Gran Bretagna è un paese in guerra e qui tutti lo sanno, nonostante Blair abbia dovuto affrontare parecchi dissensi al conflitto. Una cosa, invece, è meno sottolineata dai nostri valenti corrispondenti o da chi gioca a spaccare il capello in quattordici per suo tornaconto: che i conservatori britannici, l’opposizione, hanno sempre appoggiato l’attacco, l’invio di truppe e anche il loro aumento in caso di necessità. Tutto questo non è stato indolore, nessun “pat pat” sulla spalla al premier, ma le polemiche anche violente lasciano il posto al realismo di un battaglia che si vince o si perde tutti insieme, visto che le divisioni – e non serve Sun Tzu per dirlo – fanno solo il gioco del nemico. La prossima primavera si terranno le elezioni generali e la campagna elettorale, tosta come non se ne ricordavano dall’epoca Thatcher, è ampiamente partita, favorita anche dall’abbrivio delle europee e amministrative tenutesi lo scorso 10 giugno. Se Blair punta sui risultati ottenuti e sulla continuità, i Conservatori per la prima volta da sette anni a questa parte sembrano intravedere la luce alla fine del tunnel imboccato quando alla guida del partito c’era John Major. L’uomo chiamato a vincere la sfida e a riportare i Tories a Downing Street è Michael Howard, giunto alla guida del partito dopo un triennio di faide interne degne del “Padrino” e forte della benedizione di Margaret Thatcher in persona, che lo volle nel suo staff governativo all’epoca della blue revolution. Due le parole d’ordine: svecchiare e proporre. Per la prima red line è stato chiamato ai massimi vertici di Smith Square lord Maurice Saatchi, la metà esatta di quell’istituzione mondiale nel campo della pubblicità e della comunicazione che è l’agenzia Saatchi&Saatchi nonché inventore dello slogan che spalancò la strada verso Downing Street alla Lady di Ferro: «The Labour is not working», ovvio riferimento alla pessima reputazione di cui i laburisti dell’epoca godevano in fatto di politiche economiche. La prima mossa che Saatchi ha consigliato ad Howard fu quella di proporre l’istituzione di una bank holiday, una vacanza nazionale, per festeggiare “il giorno dalla liberazione dalle tasse”, ovvero il giorno in cui l’inglese medio – il bloke – smette di lavorare per pagare le tasse e comincia a farlo per sé e per il suo portafoglio. Niente di geniale, per carità, né di particolarmente innovativo, se non per un piccolo ma determinante particolare: quella data esiste già con il governo laburista, anche se non è oggetto di festeggiamento, ed è già stata spostata tra i mal di pancia dei sudditi tartassati dal 27 maggio al 9 giugno. Touché.
La seconda priorità, ovvero il proporre, Howard l’ha messa in campo con enorme determinazione la scorsa settimana quando, aprendo di fatto la campagna elettorale per le politiche, ha scelto due temi di poco conto sui cui confrontarsi con Blair e con gli elettori: educazione e sanità, ovvero due materia che in Italia fanno saltare governi e ministri come tappi di champagne a capodanno. Come se questo non bastasse, i Conservatori hanno elaborato un piano decisamente rivoluzionario basato sul principio della “libertà di scelta” del malato e dei genitori. Forte della strategia posta in essere dal thacheriano Centre for Policy Studies (Cps) e dal lavoro di Lord Blackwell, Howard ha annunciato che in caso di vittoria alle elezioni i Tories destineranno 50 miliardi di sterline, circa 75 miliardi di euro, all’anno in più per sanità ed educazione. Convinto che la chiave di volta delle elezioni siano i servizi pubblici e non l’Europa o l’Irak, Howard ha quindi fatto un bagno di umiltà girando in lungo e in largo la sua circoscrizione elettorale, Folkestone, andando nelle scuole e negli ospedali per vedere cosa non va. La risposta della gente è stata unanime: troppe liste d’attesa nelle case di cura e troppe scuole che falliscono nell’impegno di educare i ragazzi, spalancandolo loro la strada dell’abbandono precoce o comunque del fallimento personale di un progetto di crescita. «Voglio dare ad ognuno quelle possibilità di scelta in campo sanitario ed educativo che oggi sono garantite soltanto a chi ha i soldi per permetterselo. Ciò che dico è ciò che la gente avrà», ha dichiarato Michael Howard a Tempi in un breve colloquio nella Central Lobby di Westminster, reso possibile da Michael Oulds del Bruges Group, prima di snocciolare i dati: la spesa annuale per il servizio sanitario nazionale salirà a 124 miliardi di sterline e a 67 per il sistema educativo. La ricetta, per entrambe le materie, è una semplice riedizione della politica di right to buy applicata con successo dalla Thatcher, «un’idea semplice che libera lo spirito umano», chiosa mister Michael. Nell’idea dei Tories, infatti, «tutte le scuole dovrebbero diventare indipendenti, riducendo quindi al minimo le interferenze governative sui programmi e sugli obiettivi da raggiungere, guidate dal preside all’interno di un board locale. Gli insegnanti saranno quindi liberi di calibrare i propri programmi in base alle esigenze dei ragazzi e alla sacra legge della concorrenza, ovvero alla necessità degli istituti di attirare più studenti possibile per ottenere maggiori fondi dallo Stato. Il governo, infatti, pagherà una somma per ogni ragazzo iscritto, garantendo crescita dei bilanci della scuola e quindi maggiori offerte e livello di eccellenza». E i genitori, come beneficeranno di questa rivoluzione? «Aprendo il mercato, ovvero ponendo in competizione le scuole indipendenti, il governo garantirà quindi ai parenti la libertà assoluta di scegliere la scuola migliore a cui iscrivere il proprio ragazzo, beneficiando del vaucher annuale di 3.500 sterline ed essendo liberi di spenderlo in qualsiasi istituto. Fine della scuola locale, quindi, spesso e volentieri – soprattutto nelle aree del nord – gravate da standard di inefficienza spaventosi e quindi non in grado di garantire un’educazione libera e adeguata agli studenti. Uno step successivo alle Grant Maintained Schools istituite dalla Thatcher e progressivamente abolite dai governi laburisti. Le scuole saranno inoltre libere di far subentrare capitali privati nelle loro casse e di svilupparsi in caso riescano ad attrarre un alto numero di iscritti».
A rendere ancora più interessante la prospettiva è il fatto che un simile sistema favorirebbe la nascita di nuove scuole, soprattutto nelle aree dove le recettività è più bassa e quindi il diritto di scelta dei genitori è gravemente leso dall’oggettiva mancanza di alternative. Inoltre i genitori potranno controllare ancora più da vicino l’attività acquistando quote di capital budget della scuola a cui hanno iscritto i figli. E cosa succederà alle scuole che, per la loro arretratezza o per difficoltà oggettive, non saranno in grado di competere nel mercato delle indipendent schools? Alla faccia delle accuse strumentali che vedrebbero i Tories intenti ad organizzare la distruzione dei servizi pubblici, nel programma presentato da Michael Howard è scritto a chiare lettere che «oltre a beneficiare comunque del fondo pro capite per ogni iscritto, queste scuole si vedranno accordato un prestito dal governo – erogato da un’agenzia di credito centrale – per far fronte ai debiti e attrezzarsi per lo sbarco sul palcoscenico della concorrenza tra pari. Ovviamente questa cifra dovrà essere restituita (la scuola deve presentare un piano di investimento e una prospettiva che includa le strategie poste in essere per colmare il gap) e lo Stato monitorerà il suo utilizzo effettivo». La stessa logica sarà seguita per quella che di fatto diventerà una privatizzazione sotto controllo statale dell’Nhs, il sistema sanitario nazionale. Come per le scuole, anche gli ospedali vedranno drasticamente ridursi l’intervento centrale di Londra e saranno guidati da un team medico e manageriale locale in assoluta libertà, la medesima che verrà garantita al paziente nello scegliere quale ospedale gli garantisce cure e assistenza migliori, senza che questa possibilità di scelta ricada sul suo portafoglio: l’Nhs interverrà comunque nella copertura delle spese mediche di chi decide, per esempio, di farsi curare a Blackpool pur essendo di Leicester. Questa apertura, questa parificazione con le strutture private, non graverà poi sui più bisognosi: i malati gravi o con patologie croniche godranno infatti di benefit ed esenzioni a costo zero. Non male, ma il meglio arriva parlando con Tim Knox, editor del Cps. Knox ci riceve nel suo ufficio di Tufton Street, la strada londinese dove hanno la propria sede tutti i principali think tank britannici e ci dimostra subito cosa significhi fare campagna elettorale in Gran Bretagna: «La gente sa benissimo cosa vuole e cosa vuole sentirsi dire. I giornali, ovviamente, giocano il loro ruolo ma al di là delle battaglia di retroguardia, delle speculazioni e dei giochi di corridoio che avvengono anche qui come nel resto del mondo, i politici sanno che la resa dei conti arriverà sempre sotto forma di daily matters, di questioni della vita ordinaria: sanità, trasporti, educazione, costo della vita. Le recenti elezioni hanno dimostrato che la gente ha voluto punire le promesse non mantenute dal governo e l’Irak shadow invocata da molti dirigenti laburisti non è stata in effetti così determinante di per sé: il Labour ha perso amministrazioni locali come quelle di Newcastle e Leeds che lo vedevano al potere rispettivamente da 30 e 24 anni. Questo significa che la gente ha voluto mandare un segnale forte alle persone che hanno alzato le tasse e malgestito il sistema dei trasporti urbani prima che a chi ha mandato le truppe a Bassora. La campagna dei Conservatori sulla libertà di scelta in fatto di sanità ed educazione rappresenta una grande sfida, poiché sono non soltanto gli indicatori principali dello stato di salute di una democrazia ma anche gli argomenti che maggiormente interessano e preoccupano la gente: bisogna risolvere il problema dell’immondizia all’angolo della strada o del traffico che paralizza le città prima di discutere di massimi sistemi, altrimenti it’s over. Non è così anche in Italia?». Beh, non proprio, caro Tim. Nel Belpaese a due anni dalle elezioni politiche si parla di sottosegretariati, tutela del pomodoro biologico di chissà quale ameno collegio elettorale, di poltrone da spartirsi e si lascia che l’unico ministro dell’Economia che aveva cercato di tagliare le metastasi stataliste della spesa pubblica venga sacrificato sull’altare delle esigenze elettorali. Anche questa volta, quindi, Londra è stata sinonimo di rimpianto: qui ci si scontra sui programmi, sull’educazione – bene primo e irrinunciabile di una democrazia sana, per dirla con Mr. Knox – e sul diritto alla salute, in Italia invece si crocifigge la Moratti e si riabilita la Bindi’s way of health nella Regione Sardegna. Viene da riflettere, chissà se lo faranno anche i litigiosi vicini della Casa delle Libertà e i riformisti inconsapevoli dell’Ulivo, gli stessi che sbavano per l’ammirazione ad ogni parola del thatcheriano de facto Blair ma che fanno merenda con Diliberto e Bertinotti?
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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Emanuele Boffi