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Lo studioso che spiegò agli americani che quelli del Medioevo non furono “secoli bui”

Nel 1927 il medievista americano mise in discussione l’opinione che il medioevo fosse «l’età dell’ignoranza», esaltando invece un periodo pienamente umano perché veramente cristiano

Paolo Vian
19/09/2015 - 2:30
Cultura
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Stralci da un articolo tratto dall’Osservatore romano – Come Mahomet et Charlemagne (1937) di Henri Pirenne, The Renaissance of the Twelfth Century (1927) di Charles Homer Haskins segnò una svolta nella medievistica del Novecento. Nel volume uscito postumo due anni dopo la morte lo storico belga aveva mostrato che la vera cesura nella storia europea era stata rappresentata, fra vii e viii secolo, dall’invasione islamica, col conseguente collasso nel commercio mediterraneo, molto più che dalla silenziosa caduta dell’impero romano nel 476. Nel 1927 il medievista americano mise in discussione l’opinione che il medioevo fosse «l’età dell’ignoranza, del ristagno, della tetraggine, così assolutamente contrastante con la luce, il progresso, la libertà del Rinascimento italiano che seguì», che fosse «un tempo in cui l’uomo era insensibile alla gioia, alla bellezza di questo fuggevole mondo, lo sguardo eternamente rivolto ai terrori dell’altro». Nella scia della celebre opera di Jakob Burckhardt (1860) sul Rinascimento italiano, tutto era stato giocato sul chiaroscuro, sul passaggio dalle tenebre di un fosco medioevo alla luce di un Rinascimento abbagliato dalla solare sapienza antica. Con Haskins e dopo di lui ci si accorse che il medioevo era in verità costellato di molteplici “rinascite” (da quella carolingia, intorno alla scuola palatina, a quella ottoniana e ancora altre) e soprattutto che esse erano un originale modo di appropriazione dell’antico, non archeologico ma vitale e creativo.

L’iniziale accostamento dei due titoli è legittimo perché in entrambi i casi Pirenne e Haskins contestarono periodizzazioni consolidate e pigramente accettate da tutti. Certo, alle spalle di Haskins vi era più di un secolo di tentativi di rivalutazione del medioevo, dal romanticismo in poi, con la possente storiografia che vi si ispirò. Ma si trattava di un fenomeno squisitamente europeo che, oltre a non scalzare i pregiudizi dei falsi colti e della caterva degli orecchianti, non era mai divenuto un’acquisizione del nuovo mondo americano che, nei primi decenni del xx secolo, si avviava a divenire la potenza egemone del Novecento ereditando tutti i preconcetti delle società europee che lo avevano generato. Il merito di Haskins fu dunque quello di acclimatare nel mondo americano una rivalutazione del medioevo che avrebbe aperto la strada a una fiorente storiografia. Dopo pochi anni essa sarebbe stata alimentata e rinvigorita da studiosi europei ostracizzati dai loro Paesi per motivi razziali e divenuti protagonisti negli Stati Uniti di una translatio studii rispecchiata nelle biografie di uomini come Ernst Kantorowicz e Stephan Kuttner, Herbert Bloch e Gerhart B. Ladner. Haskins riuscì nell’intento con una mirabile, efficacissima, vivace sintesi, non appesantita da eccessivi apparati di note, ma solidamente fondata e convincente, che a distanza di quasi novant’anni dalla sua pubblicazione regge ancora bene l’usura del tempo e merita davvero di essere letta (o riletta).

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Non è quindi un caso che Haskins (1870-1937), autore di notevoli contributi sulla storia della scienza, sulle università medievali e sui normanni, politicamente impegnato accanto al presidente americano Woodrow Wilson anche alla conferenza di pace di Versailles nel 1919, sia divenuto quasi un mito negli Stati Uniti. (…) La riproposizione del volume nell’ormai classica traduzione di Paola Marziale Bartole permette dunque di rileggere un libro che ha veramente impresso un indirizzo nuovo agli studi (Charles Homer Haskins, Il rinascimento del xii secolo, Roma, Castelvecchi, 2015, pagine 271, euro 25). Rispetto alla prima edizione italiana del Mulino, che risale al 1972 (con successive edizioni), nel titolo si è preferito il termine «rinascimento» a «rinascita», con chiara, intenzionale allusione al fulgore quattro-cinquecentesco, forse proprio per sottolineare la vita nuova e vigorosa che investe i centri di studio e le biblioteche e si esprime in un rinnovato interesse per i classici latini e la poesia, per il diritto e la storiografia, per la scienza e la filosofia, mentre si moltiplicano le traduzioni dal greco e dall’arabo e nascono le università.

Il legato più bello del volume di Haskins è in quest’immagine luminosa e vitale di un medioevo che l’umanesimo e l’illuminismo (nelle loro componenti anticristiane) hanno calunniato descrivendolo come rattrappito, nemico della vita e infelice. È l’immagine di Bernardo di Clairvaux in celebri pagine di John Addington Symonds evocate da Haskins nella prefazione. Il monaco procede sulle sponde del lago Lemano ma non si avvede della bellezza del paesaggio, chiuso nella sua cocolla, curva «la fronte pensierosa sul collo della sua mula»: lo specchio di un’epoca in cui, «morto ogni senso dell’uomo, un pellegrino meditabondo, intento agli orrori del peccato, della morte e del giudizio, lungo le strade maestre del mondo, non si accorge che esse meritano il suo sguardo, che la vita è benedizione». Nulla di più falso, se si pone mente alla meraviglia di certe pagine, di certe miniature, di certe architetture cistercensi che trasudano un gusto per il bello e un amore per la vita indimenticabili. Aveva ragione Marie-Dominique Chenu ne La teologia del xii secolo (1957), un gran libro che forse non sarebbe stato scritto se Haskins non avesse aperto la strada: il contemptus mundi nulla detrae a una presa di coscienza e di possesso umana del mondo e della natura, che ha pure una sua consistenza ma rimane una foresta di simboli. Microcosmo/macrocosmo, dama/natura, il Timeo e la Scuola di Chartres, una natura ordinata e desacralizzata di cui si scoprono le leggi e che appare quasi «vicaria dell’Onnipotente». Ma il Cristo rimane al vertice dei portali delle cattedrali e alla fine Alano di Lilla, l’autore del De planctu naturae, diviene cistercense e chiude i suoi giorni a Cîteaux. Sono figli del xii secolo e del suo «risveglio evangelico» — non dimentichiamolo — Domenico di Guzmán e Francesco d’Assisi che con i loro Ordini segneranno indelebilmente gli ultimi secoli medievali (e non solo quelli). Figli del xii secolo, un secolo pienamente umano perché veramente cristiano.

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