Nella Praga degli inizi del scorso secolo, attraversata dai cortei operai socialisti, Franz Kafka si trovò a compatire l’illusione di coloro che pensavano che il nemico fossero i ricchi capitalisti. Diceva Kafka all’amico Max Brod: «Le catene dei popoli oggi sono fatte delle carte dei ministeri». Torniamo al presente e prendiamo la traduzione italiana del saggio di uno dei più grandi storici del ‘900. Secondo il traduttore italiano, nel recente Il secolo delle idee assassine (Mondadori) Robert Conquest parlerebbe ripetutamente del «primato della legalità». Ora, osserva il nostro redattore e fine anglista Marco Respinti, l’autore inglese nell’originale scrive (e non poteva che scrivere) Rule of law , talvolta addirittura maiuscolando i sostantivi. La differenza non è affatto sottile – ci fa notare Respinti – perché Rule of Law significa “primato del diritto”, che è ben più della mera “legalità”: indica lo Ius e non la lex che, vincolando reggitori e cittadini nelle sorti della res publica, sta alla base del governo “per consenso” e del costituzionalismo “anglofoni”. Il contrario dell’idea del princeps legibus solutus da cui hanno origine prima gli assolutismi, poi i dispotismi, infine i totalitarismi. In Italia, lo sforzo dei nuovisti della cosiddetta “seconda repubblica” è stato quello di propagandare e di tentare di implementare a ogni livello della società l’ideologia del “primato della legalità”. Ideologia che oggi si riverbera addirittura nelle traduzioni dei libri e tende a plasmare gli ambiti di lavoro, di studio e di gestione della cosa pubblica. Il fatto è che questa corsa al “primato della legalità” non soltanto non produce i risultati (di efficienza, trasparenza, onestà) che promette, ma peggiora la situazione (si vedano ad esempio la paralisi delle amministrazioni sotto il tiro delle Procure, il dramma della scuola e la commedia delle privatizzazioni, cioè il peggioramento dell’educazione reale dei nostri ragazzi a fronte della moltiplicazione delle parole e carte riformatrici; il permanere delle scelte strategiche dell’economia italiana una prerogativa di poche grandi famiglie legate al governo). L’idea di un “primato della legalità” non è soltanto una presunzione irragionevole, è uno dei motivi che in questi anni hanno prodotto effetti sociali devastanti. È vero o non è vero che il problema italiano non è l’assenza di leggi – ne abbiamo più di 200mila, record in Occidente – ma è esattamente l’opposto, cioè che ne abbiamo troppe, inutili, sembra quasi concepite apposta per renderci la vita impossibile, dunque per essere aggirate, dunque per offrire a burocrazia e tribunali statali quel potere discrezionale che, in barba all’inattuabile e quindi ipocrita dettato costituzionale che prescrive “l’obbligatorietà dell’azione penale”, consente al Potere (esecutivo o giudiziario o ai due insieme) di passare al tritacarne imprese e cittadini (preferibilmente non politicamente corretti)? Rispondiamo a questa domanda, ognuno pensando alla propria realtà quotidiana e regolando il proprio giudizio non sui “biagini” del potere, ma sul puro e semplice paragone con quella pietra angolare che è la vita in famiglia, sul posto di lavoro, in società, alla luce del moltiplicarsi delle regole ispirate dal principio del “primato della legalità”. In vista del voto, rispondiamo alla domanda seguente: chi sono i padrini politici di questa ideologia che sequestra lo Stato di diritto, avvelena le relazioni tra cittadini, frustra la voglia di fare dei corpi sociali?
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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Emanuele Boffi