Dopo la batosta del giorno dopo, Wall Street darà nelle prossime settimane la sua opinione in merito al caso Microsoft, e sarà una decisione scritta a colpi di centinaia di miliardi in più o in meno sul valore di uno dei 30 maggiori titoli del Dow Jones newyorchese. Oscillazioni, insomma, in grado di far tremare tutta la Borsa americana. Come Guelfi e Ghibellini gli americani da qualche giorno si schierano a fianco di Bill Gates, che nel 1975 aveva fondato quello che sarebbe diventato il maggiore impero al mondo dei computer, oppure si affiancano alla decisione del giudice Thomas Penfield Jackson, che venerdì scorso aveva emesso il suo giudizio (chiamato in inglese finding of facts) accusando la Microsoft di aver monopolizzato il mercato mondiale e di aver tratto immensi profitti riuscendo a schiacciare ogni avversario alla nascita, scoraggiando altri dal tentare l’avventura del mondo telematico. Un anno fa (il 19 ottobre del 1998) il dipartimento di Giustizia aveva appena aperto il fascicolo su Microsoft con ipotesi di reato antitrust e Bill Gates aveva cominciato a capire che il clima attorno a lui stava cambiando: nonostante i suoi ripetuti tentativi di costruirsi attorno un’opinione pubblica molto più positiva, devolvendo miliardi a scuole e musei, Gates si era reso conto che la concorrenza stava avendo la meglio e che il suo nome, e quello della Microsoft, erano stati demonizzati. Nonostante il suo immenso sforzo per condizionare l’opinione pubblica, nonostante la sua autobiografia scritta con questo fine, Microsoft con i suoi 875mila miliardi di lire di capitalizzazione in Borsa non è riuscita a piegare la giustizia americana. Ma il verdetto del giudice Jackson, e l’entusiasmo col quale il ministro alla Giustizia Janet Reno ha accolto la sua opinione, specificata nelle 207 pagine di un vero e proprio librone di accuse e fatti, secondo molti non è altro che uno “show” che non avrà conseguenza sul mercato azionario e che riguarda soprattutto una battaglia ideologica. Sono due infatti i messaggi che il giudice ha inviato a Silicon Valley, terra dei computer e delle nuove fortune americane: il primo è che il “problema Microsoft” esiste e che le tattiche minatorie degli uomini di Bill Gates hanno avuto una profonda ripercussione sulla concorrenza; l’altro è che l’industria dei computer non è affatto diversa da qualsiasi altro business americano: imperfetta, spesso fratricida, disonesta quanto basta per non farlo vedere. E che il governo deve intervenire, come nel vecchio Far West, inviando sceriffi, imponendo regole ben precise, impugnando la colt come nel caso di Bill Gates, se necessario.
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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