La Nato ha ucciso in Libia 72 persone, fra cui 24 bambini, durante attacchi contro obiettivi senza importanza strategico-militare. È quanto rivela un rapporto di Human Rights Watch, che mette sotto accusa i raid aerei dell’Alleanza Atlantica, fondamentali per la caduta del rais Muammar Gheddafi, ucciso il 20 ottobre scorso con un colpo di pistola alla testa. La Nato si è scusata, affermando che si è trattato solo di fatalità. Del resto, non c’è nulla di cui stupirsi o indignarsi.
A marzo del 2011, veniva approvata la risoluzione Onu 1973 che dava il via all’operazione Unified Protector. Attraverso una no-fly zone, la Nato aveva il compito di «proteggere i civili» dalle nefandezze del regime di Muammar Gheddafi. Tra il marzo e l’ottobre del 2011, con il consenso della stampa internazionale, per «proteggere i civili» la Nato ha sferrato 26 mila attacchi per un totale di 9.600 raid in cui sono stati bombardati e distrutti almeno 5.900 obiettivi sensibili. Lo stesso convoglio in cui viaggiava Gheddafi il 20 ottobre è stato colpito da un aereo della Nato.
La notizia di 72 vittime non crea scalpore e impressiona solo chi non si è mai voluto accorgere che la Nato, con la scusa di proteggere i civili, appoggiava i ribelli di Bengasi con lo scopo di deporre Gheddafi. Alla fine sono riusciti a mettere fine a 42 anni di regime. Non con la diplomazia, però, ma con ingenti quantità di bombe “umanitarie”. Nessuna sorpresa, dunque, se 72 persone sono state uccise da chi aveva l’espresso compito di “proteggerle” da un regime crudele, che ora però ha lasciato il posto a un paese diviso, instabile e minacciato da derive fondamentaliste.