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Le bombe, i rapimenti dei cristiani, le chiese attaccate. Reportage dalla Siria

Ribelli e islamisti da una parte. Regime dall’altra. Mentre tutto scorre indifferente 200 persone cadono ogni giorno. E i cristiani fuggono. Viaggio a Damasco sotto una pioggia di bombe.

Rodolfo Casadei
03/03/2013 - 10:11
Esteri
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Reportage da Damasco. Rania ha solo 21 anni, ma come tutti gli abitanti di Damasco è già scesa a patti con la morte: «Continueremo a vivere come abbiamo sempre fatto, e se dobbiamo morire moriremo. Un ragazzo di cui ero amica da cinque anni è andato a combattere coi ribelli ed è stato ucciso. Non ho provato alcun dispiacere: il governo ci permette di frequentare l’università gratuitamente, che diritto abbiamo di ribellarci?», dice questa brillante studentessa di ingegneria, prima ragazza del suo corso. Parole raccolte il giorno dei funesti attentati di Mazraa e Barzeh, dove due autobombe hanno stroncato la vita di 52 persone, fra loro molti studenti di una scuola media, e una terza che doveva sopraggiungere sulla folla attirata dalla precedente esplosione miracolosamente non è deflagrata perché il conducente è rimasto ferito nella manovra di avvicinamento senza poter innescare la sua bomba.

GUERRA SENZA FINE. Gli studenti si passano i cellulari mormorando: dopo poco più di un’ora le immagini dell’attacco riprese coi telefonini erano su Facebook e da lì è subito cominciato il travaso su centinaia di cellulari. «La guerra non durerà un altro inverno, o vinceremo noi o vinceranno loro», conclude sicura Rania. Niente è meno probabile di questo. Più che a una resa dei conti fra due fronti avversari, a due anni dall’inizio della crisi e dopo venti mesi di lotta armata, la Siria sembra avviata al puro e semplice suicidio. L’intero paese, con la sola eccezione dei due porti settentrionali di Tartus e Latakia, è un campo di battaglia dove si affrontano ben 140 mila ribelli, un quarto e forse più dei quali di origine straniera, e 500 mila uomini delle forze armate e delle milizie civili filogovernative. In alcune località gli scontri sono sporadici, un incrociarsi di blitz e agguati, in altri, come la sfinita Aleppo, ridotta per metà in macerie da sette mesi di assedio delle formazioni del Libero esercito siriano e soprattutto delle milizie salafite contrastato con attacchi missilistici da parte del governo, pare di assistere a una nuova battaglia di Stalingrado senza risparmio di uomini e mezzi.

ALMENO 100 MORTI AL GIORNO. Si parla di 60-70 mila morti dall’inizio della crisi, ma di questi almeno 50 mila sono caduti negli ultimi nove mesi, quando l’afflusso di combattenti salafiti si è fatto massiccio (oltre alla tristemente famosa Jasbat Nusra, legata ad Al Qaeda, c’è un’altra decina di sigle) e l’opzione militarista del regime è diventata definitiva. Da allora nessuna giornata si è mai conclusa con meno di 100 caduti e più spesso 200, sempre in maggioranza civili. Chi arriva in auto dal Libano, dal valico di Masnaa, sa che la capitale siriana appare all’improvviso giù in basso, tutta intera, dopo una mezz’ora di tornanti in lieve discesa. Dall’inizio di febbraio, la Damasco che si squaderna alla vista dopo sei posti di blocco dell’esercito toglie il respiro: spesse colonne di fumo grigio o nero si alzano dalle periferie, dense nuvole innaturali si raccolgono sul borgo di Daraya.

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L’ALLEGRIA PRIMA DEI BOATI. Per le vie della città l’atmosfera è ancora più irreale: la vita cittadina scorre indifferente come se non stesse succedendo nulla; auto, pedoni, venditori ambulanti, clienti, si muovono su uno sfondo visivo fatto di enormi colonne di fumo e con l’implacabile sottofondo sonoro dei colpi di artiglieria – ora sordi, ora laceranti – scagliati senza tregua contro Daraya, Qadam, Mezze, Beit Shalem, Jobar, Mleha, l’intera corona delle periferie di Damasco tranne quelle del lato nord. Dentro le case e i locali pubblici è la stessa cosa: famiglie e avventori ridono e scherzano senza pudore mentre fuori i rimbombi si fanno inequivocabili. L’unico momento in cui il contrasto risulta struggente è quando la mattina alle sette, dopo una notte di raffiche e boati praticamente ininterrotti, a una pausa di silenzio pieno di sospensione subentrano gli schiamazzi degli allievi delle scuole elementari.

NON CI SI SPOSTA NEANCHE DI GIORNO. Nell’attrezzato cortile dei salesiani a Salhié, adiacente a una scuola statale prodotto della nazionalizzazione del 1963, bambini e bambine fra i 6 e i 10 anni spandono impensata allegria nell’aria con le loro canzoncine e le grida di quelli che giocano a pallone prima di entrare in classe. È un attimo, e le voci infantili si mescolano ai tuoni dell’artiglieria, in un’assurda combinazione che si protrae per molto tempo. «Invece solo la metà dei bambini dell’asilo delle nostre suore riescono a venire, perché molti dovrebbero arrivare da lontano e non hanno il coraggio di viaggiare», racconta padre Ashraf, salesiano egiziano del centro don Bosco. «Anche i ragazzi dell’oratorio non sono più numerosi come prima, e la Messa è piena solo per metà: la gente comincia a spostarsi poco anche di giorno».

COLPI DI MORTAIO. Motivi per starsene in casa ce ne sono. A interrompere il surreale tran tran quotidiano del centro città arriva quello strano sorteggio della morte rappresentato dai colpi di mortaio, che i ribelli riescono ogni giorno a far piombare su uno spicchio diverso dei quartieri più esclusivi del centro. Sarebbero mirati a uffici governativi e strutture militari, ma in realtà cadono un po’ dappertutto: sul tetto dell’ospedale francese, sul giardino Jahiz dove la gente va (o meglio: andava) a fare footing; qualcuno va vicino al bersaglio, come quello contro la sede dello Stato maggiore in piazza degli Ommiadi. Il generale Hussein, che comunque non poteva essere colpito perché non si trovava nell’edificio, non è per nulla scosso: «Il mondo non vuole capire che dietro questa ribellione c’è un complotto internazionale contro la Siria, perciò non abbiamo altra scelta che usare tutta la nostra forza per schiacciare il nemico. Il nostro errore sta nel non aver usato ancora tutta la forza di cui disponiamo. Inoltre ho proposto di difendere le nostre città di provincia con soldati del posto, per motivarli maggiormente». Il generale Hussein (nome di convenienza) non tiene conto di un problema: gli obici delle forze armate non sono necessariamente più precisi dei mortai dei ribelli, e le inevitabili vittime civili fanno il gioco di chi cerca di reclutare nuovi combattenti assetati di vendetta, in una spirale di cui non si vede la fine.

POSTI DI BLOCCO. Il nemico, comunque, è ormai dappertutto. Alcuni studenti raccontano che poco tempo fa all’università è stata arrestata una giovane che aveva con sé un ingranaggio di un ordigno esplosivo. Suo fratello la aspettava nei bagni di una facoltà per assemblare il tutto e provocare una strage. Al calare delle ombre piazze e incroci principali si riempiono di posti di blocco dell’esercito e di miliziani in borghese. Controllano i documenti di pedoni e automobilisti per essere certi che nei differenti quartieri entri solo chi è residente. Le auto vengono fatte accostare e un addetto avanza lentamente a fianco della vettura tenendo in mano uno strano oggetto con l’impugnatura nera, un contatore e un’asta metallica argentata orientata parallelamente al veicolo: è un rilevatore di esplosivi, che dovrebbe individuare le autobomba. I posti di blocco, però, sono anche il bersaglio di attentati a colpi di kalashnikov provenienti da veicoli che passano sfrecciando nelle loro vicinanze quando è già buio.

RAPIMENTI DI CRISTIANI. Dentro la grande tragedia siriana, la condizione dei cristiani si va rapidamente degradando. Questo era forse il paese mediorientale dove godevano del maggiore grado di uguaglianza civile coi connazionali musulmani. Anche ora, 5 dei 27 ministri con portafoglio del governo sono cristiani, come pure molti alti gradi dell’esercito. La sicurezza era accettabile. Non più. Dimah è un giovane studente universitario cristiano assiro, ed è appena arrivato all’aeroporto di Damasco da Kamishli, nell’estremo nord-est. Sta cercando di trasferirsi a studiare in Germania, e spiega subito il perché: «Due mesi fa stavo andando in corriera ad Aleppo, dove frequentavo l’università, quando siamo stati fermati dai combattenti di Jasbat Nusra. Sono saliti sull’autobus armati e hanno intimato: “Tutti i cristiani devono scendere, sono nostri prigionieri”. Eravamo un bel gruppetto e ci siamo messi a discutere con loro, nonostante ci puntassero contro i kalashnikov. Ci chiamavano “kaffir” e ci dicevano che saremmo andati tutti all’inferno. Hanno detto di essere libici. Alla fine hanno preso in ostaggio un solo studente, un ragazzo di Aleppo, e a noi delle altre città hanno detto: “Tornate da dove venite e non fatevi più vedere qui”. Per liberare il prigioniero ci sono voluti 20 mila dollari, mentre molti degli altri studenti hanno deciso come me di trasferirsi all’estero».

SIRIA COME L’IRAQ. Il destino dei cristiani siriani sembra ripetere la stessa parabola di quello dei cristiani iracheni dopo la caduta di Saddam Hussein. Nonostante il regime sia ancora pienamente in grado di combattere i ribelli, in moltissime località c’è stato un tracollo dell’ordine pubblico, e le prime vittime della criminalità dilagante sono stati i cristiani perché rappresentano un’élite sociale: ricchi commercianti e professionisti appartengono a questa minoranza. Per esempio ad Hasakeh, nel nord-est del paese, dopo un’ondata di rapimenti con richieste di riscatto superiori ai 100 mila dollari caratterizzata dall’evidenza che 9 rapiti su 10 erano cristiani, nel giro di poche settimane 50 famiglie di medici cristiani hanno abbandonato la città. Da pochi mesi i rapimenti e le aggressioni hanno assunto un esplicito connotato confessionale, del quale la storia di Dimah e dei suoi compagni è soltanto un esempio. Michel Kayyal e Maher Mahfouz, i due sacerdoti rispettivamente cattolico armeno e greco ortodosso rapiti il 9 febbraio mentre viaggiavano su un autobus fra Damasco e Aleppo, sono stati sequestrati da una milizia salafita di combattenti non arabi (in Siria sono presenti anche afghani, pakistani e ceceni) che li ha riconosciuti come religiosi cristiani. Un salesiano che viaggiava con loro è sfuggito al rapimento per non essere stato identificato come prete e ha svelato l’identità non araba dei sequestratori. Pochi giorni dopo lo stesso destino è toccato all’ex segretario del vescovo armeno di Aleppo, unico viaggiatore preso prigioniero dai salafiti che hanno controllato accuratamente i documenti dei passeggeri dell’autobus e intuito l’identità armena dell’uomo dal suo cognome. Per lui come per i due sacerdoti catturati in precedenza, sono stati richiesti riscatti equivalenti a 160 mila dollari statunitensi.

ASSALTO ALLE CHIESE. È rimasta su una pagina di Facebook solo per un paio di giorni un’orribile immagine proveniente da una località rurale della provincia di Latakia: una giovane donna spogliata col petto squarciato e una croce da parete infilata nella bocca, con la didascalia “se voi cristiani continuate a sostenere il regime, le vostre donne faranno questa fine”. Alla Coalizione nazionale siriana che coordina precariamente le componenti non salafite della guerriglia aderiscono pochi cristiani isolati; la quasi totalità diffida di una ribellione le cui iniziali richieste di democrazia appaiono ogni giorno di più soppiantate dai progetti di stato islamico delle componenti salafite e jihadiste in piena espansione.

GRUPPI JIHADISTI. Nelle località investite dai combattimenti le chiese sono state inizialmente razziate a scopo di bottino, come mostrano per esempio le foto delle chiese di Deir Ez Zor private dei loro arredi sacri trafugati. Cominciano ora a registrarsi episodi di profanazione gratuita. Per esempio la cappella dei martiri armeni a Margadà, non lontano da Hassakeh, che raccoglie ossa delle vittime del genocidio del 1915, lasciata fino alla settimana scorsa in pace sia dai ribelli del Libero esercito siriano sia da quelli di Jasbat Nusra, è stata vandalizzata da un nuovo gruppo straniero arrivato da poco nella regione.

BASTA ARMI. Il numero complessivo dei cristiani, che prima dell’inizio della crisi era di circa 1,8 milioni (in costante diminuzione da 40 anni a causa dell’emigrazione), è sceso ora a 1,4 milioni principalmente  per l’esodo dei benestanti e di chi ha parenti all’estero. «Per favore, dite all’Europa di non procurare altre armi ai terroristi!», implora un sacerdote siro ortodosso del nord-est di passaggio nella capitale. Impossibile dargli torto.

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