La trattativa stato-mafia era una boiata pazzesca

Di Ermes Antonucci
24 Settembre 2021
La Corte d'assise d'appello di Palermo ribalta la sentenza di primo grado: assolti Dell'Utri, Mori, Subranni e De Donno. È il crollo definitivo di un teorema assurdo
La corte d'assise di Palermo
La corte d'assise di Palermo che ha ribaltato la sentenza di primo grado sulla trattativa stato-mafia (foto Ansa)

Il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia è clamorosamente crollato. La Corte d’assise d’appello di Palermo, ribaltando la sentenza di primo grado emessa tre anni e mezzo fa, ha assolto dall’accusa di minaccia a corpo politico dello Stato tutti i principali imputati: l’ex senatore Marcello Dell’Utri, gli ex generali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni (in primo grado condannati a 12 anni) e l’ex colonnello Giuseppe De Donno (condannato in primo grado a 8 anni).

Condannati Bagarella e Cinà

La corte, composta da giudici sia togati che popolari, ha invece confermato la condanna per i boss Leoluca Bagarella (riducendola da 28 a 27 anni di reclusione) e Antonio Cinà (12 anni). Le motivazioni della sentenza saranno depositate entro novanta giorni, ma dal verdetto è possibile immaginare la logica seguita dalla corte: attraverso le stragi del 1992 e 1993, Cosa nostra minacciò le istituzioni dello Stato, ma queste non si piegarono a patti. In altre parole, la trattativa ipotizzata più di dieci anni fa dai pm di Palermo (Antonio Ingroia e Nino Di Matteo su tutti) non ci fu.

Una sentenza coraggiosa, quella dei giudici d’appello, che ha il merito di stabilire una verità processuale coerente con la verità storica, e anche con una serie infinita di sentenze passate in giudicato che hanno sempre negato l’esistenza di una trattativa tra lo Stato e la mafia.

Lo stato ha sconfitto Cosa nostra

La verità storica ci dice che dalla guerra lanciata contro lo Stato agli inizi degli anni Novanta, la strategia stragista di Cosa nostra è uscita sconfitta, grazie alla reazione avuta dalle istituzioni dopo l’uccisione di Falcone e Borsellino e culminata con l’arresto dei capi storici della mafia, Totò Riina e Bernardo Provenzano. Di fronte a questo dato di fatto, immaginare che lo Stato sia venuto a patti con Cosa nostra appare pura opera di fantasia.

La storia smentisce anche le principali ipotesi sollevate dai pubblici ministeri, in particolare quelle relative ai benefici che la mafia avrebbe ottenuto dal presunto dialogo con pezzi delle istituzioni. L’unico elemento concreto evocato dall’accusa in questi anni riguarda il periodo immediatamente successivo alle stragi (sul periodo post-1994, in cui la minaccia mafiosa sarebbe stata trasmessa al governo da Dell’Utri, i pm non sono infatti riusciti a individuare alcun provvedimento favorevole alla mafia) ed è costituito dalla mancata proroga di 336 misure di carcere duro per altrettanti detenuti al 41bis, operata nel novembre 1993 dall’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso.

In realtà, la storia ci dice che il mutamento di regime carcerario non solo coinvolse soltanto diciotto detenuti appartenenti alla mafia (e pure di rilievo modesto), ma che esso fu imposto da una precedente sentenza della Corte costituzionale, col risultato che, se si seguisse la logica dei pm, anche i giudici costituzionali dovrebbero essere accusati di far parte della trattativa.

La tesi della procura era «infondata»

La sentenza della corte d’assise d’appello pone rimedio a uno scenario giudiziario che rischiava di risultare schizofrenico. Il verdetto di condanna di primo grado, infatti, contrastava completamente con numerose sentenze definitive. Colui che secondo i pm avrebbe svolto il ruolo di promotore della trattativa tra i carabinieri del Ros e Cosa nostra, vale a dire l’ex ministro Calogero Mannino, è stato assolto in via definitiva dalla Cassazione nel processo stralcio sulla trattativa. Nella sentenza di assoluzione, i giudici di appello hanno stabilito che Mannino non era finito “nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indimostrate promesse non mantenute”, ma, al contrario, era “una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a Cosa nostra quale esponente del governo del 1991”.

I giudici hanno inoltre definito la tesi della procura di Palermo «non solo infondata, ma anche totalmente illogica ed incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti, con la quale non combacia da qualunque punto di vista la si voglia guardare». La stessa sentenza ha pure stabilito che l’unico presunto beneficio ottenuto dai mafiosi, il mutamento di regime carcerario per 336 detenuti, non fu il frutto di un patto scellerato tra lo Stato e Cosa nostra, bensì “una scelta politico amministrativa”.

L’insensato verdetto primo grado

Il verdetto di primo grado contrastava poi con le sentenze definitive che hanno assolto il generale Mario Mori dalle accuse di favoreggiamento alla mafia in relazione alla ritardata perquisizione del covo di Riina e alla mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso. Il verdetto faceva a botte anche con la sentenza con cui Dell’Utri è stato condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, visto che l’ex senatore è stato riconosciuto colpevole fino al 1992, e non anche nel periodo successivo (quello in cui, secondo i pm della trattativa, Dell’Utri si sarebbe fatto portatore delle minacce della mafia).

Infine, la sentenza definitiva del processo “Borsellino ter”, pronunciata nel 2006 dalla Corte d’assise d’appello di Catania, stabilisce che Borsellino fu ucciso per vendetta per la sentenza del maxiprocesso e per l’impegno crescente che stava dedicando ad alcune inchieste scomode a Cosa nostra, e dunque non, come sostenuto dai pm della trattativa, a causa del patto tra lo Stato e la mafia. Insomma, la sentenza della Corte d’assise d’appello di Palermo ristabilisce finalmente la verità su ciò che accadde nel periodo delle stragi mafiose. Tra lo Stato e la mafia non c’è mai stata alcuna trattativa.

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