La sorprendente vitalità dei cattolici degli Emirati Arabi Uniti, dove vige la sharia

«La maggioranza dei nostri bambini conosce le verità di fede molto meglio di quelli europei». Intervista a Mons Hinder, vicario apostolico dell’Arabia Meridionale

Monsignor Paul Hinder, 76 anni il prossimo 22 aprile, è il Vicario apostolico dell’Arabia Meridionale. L’attuale Vicariato apostolico dell’Arabia meridionale è stato ridefinito geograficamente nel 2011 dalla Santa Sede e attualmente comprende Emirati Arabi Uniti, Oman e Yemen. Quando monsignor Hinder era stato nominato suo vescovo ausiliare, nel 2003, si chiamava Vicariato d’Arabia e comprendeva anche Qatar, Bahrein e Arabia Saudita, paesi che ora fanno parte del Vicariato dell’Arabia settentrionale insieme al Kuwait. Hinder, svizzero di Turgovia e frate minore cappuccino ordinato nel 1967, è Vicario apostolico dal 2005 e risiede ad Abu Dhabi, la capitale degli Emirati Arabi Uniti. Lì lo abbiamo incontrato e intervistato, ponendogli domande che si riferiscono alle comunità cristiane presenti negli Emirati. Ad esse come pure alla realtà politico-economica degli Emirati Arabi Uniti è dedicato un reportage di Rodolfo Casadei da Dubai che appare sul numero di marzo di Tempi (che arriverà a casa degli abbonati in questi giorni).

Monsignor Hinder, nel XIX e nel XX secolo la Chiesa ha inviato missionari nei paesi africani e asiatici. Si incontravano due culture, quella del paese di origine del missionario e quella delle persone che venivano evangelizzate. Lei invece qui incontra decine di culture diverse contemporaneamente. Come si guida una comunità multiculturale e multilinguistica?
Questa è una Chiesa interamente composta di migranti: non c’è nessuno che sia cittadino dei paesi che fanno parte del Vicariato, gli Emirati Arabi Uniti, l’Oman e lo Yemen. Il fatto di essere una Chiesa di migranti ci dà un carattere un po’ particolare. Non c’è una componente indigena come in altri paesi del Vicino Oriente. Io devo essere il pastore di una Chiesa composta da tante nazionalità, con una prevalenza di due, quella indiana e quella filippina. Nelle parrocchie più grandi sono rappresentate più di 100 nazionalità! Da parte del vescovo e del clero c’è bisogno di essere equilibrati, e non tutti ci riescono subito perché alcuni arrivano qui privi di esperienza internazionale. Ci vuole pazienza perché prendano confidenza con una realtà che è molto diversa da quella del paese da cui provengono. La sfida consiste nell’accettare le persone così come sono e contemporaneamente farle integrare in un contesto veramente cattolico, cioè universale. Si tratta da una parte di valorizzare l’origine di ciascuno, dall’altra di farla integrare nel Corpo di Cristo locale. A volte ci riusciamo, a volte meno: dipende dalla collaborazione di tutti, dall’apertura o meno delle persone. Il problema che incontriamo più spesso è una sorta di nazionalismo religioso.

Quanti cristiani risiedono abitualmente negli Emirati e quanti sono i cattolici?
Non abbiamo statistiche affidabili su questa materia, anche perché si tratta di dati che cambiano continuamente. Si stima che ci siano circa 950 mila cattolici negli Emirati Arabi Uniti, che significa il 10 per cento della popolazione totale. Non so quanti siano i cristiani non cattolici: chi dice 200 mila, chi dice 500 mila. Naturalmente non frequentano tutti la chiesa, anche se la situazione è migliore di quella che prevale in Europa. Posso dire che nelle otto parrocchie degli Emirati nel lasso di tempo che va dal venerdì mattina (giorno festivo locale) alla domenica sera partecipano alla Messa circa 150 mila persone. Durante la Settimana Santa e a Natale ci avviciniamo al mezzo milione. Non tutti quelli che vorrebbero venire in chiesa riescono a farlo, a causa del loro lavoro. Le lavoratrici domestiche non sono in grado di muoversi liberamente, riescono a venire solo se il loro datore di lavoro è particolarmente benevolo: ci sono emiratini che accompagnano a Messa i loro dipendenti e poi passano a riprenderli, ma non sono tanti. Poi ci sono persone che vivono alloggiate nei campi di lavoro fuori dalle città, e queste non hanno le risorse per pagarsi un mezzo di trasporto che le porti in parrocchia, oppure sono arrivate da poco e non sono nemmeno informate dell’esistenza della Chiesa! Molti non vengono semplicemente perché sono troppo stanchi, lavorano dalla mattina alla sera, e il venerdì per loro è l’unico giorno nel quale possono fare il bucato e riposarsi veramente. Non gliene faccio una colpa. D’altra parte, io so che molti di questi migranti sono più religiosi qui di quando erano in patria: me lo dicono i sacerdoti che vengono in visita qui dai loro paesi di provenienza, e che si meravigliano per l’intensità della fede dei loro connazionali e per l’alto tasso di pratica religiosa. Per averne un’idea, basti sapere che in tutto il Vicariato i bambini e ragazzi che frequentano il catechismo nel fine settimana sono ben 30 mila, assistiti da 1.400 catechisti che noi stessi formiamo con appositi corsi. A parte un piccolo numero di religiose, sono tutti volontari laici che si dedicano gratuitamente. Abbiamo quasi 3 mila cresime all’anno, e così qualche volta la mano del vescovo è stanca, soprattutto quando mi chiamano nelle grandi parrocchie… A Dubai, le cresime sono quasi mille nella sola parrocchia di St. Mary. Quando a fine aprile farò la visita pastorale in quella parrocchia, mi aspetteranno quattro servizi di cresima per un totale di 600 ragazzi e ragazze!
Anche durante la settimana le chiese sono frequentate per le Messe feriali, la recita del Rosario, l’adorazione eucaristica, ecc. L’adorazione delle 24 ore non è possibile farla perché per le misure di sicurezza vigenti tutte le chiese devono essere chiuse dalle 22.00 fino alle 5.30 del mattino, con l’eccezione delle Messe della notte di Natale e di Pasqua.
Quanti sacerdoti e quante suore sono al servizio delle parrocchie negli Emirati? Di quali nazionalità principalmente?
Abbiamo 53 sacerdoti, 45 suore e 1 fratello laico. I cappuccini rappresentano il 60 per cento fra i sacerdoti; gli altri sono salesiani, scalabriniani, diocesani incardinati nel Vicariato, missionari fidei donum di varie diocesi del mondo. La nazionalità dominante è quella indiana, seguita dalla filippina e dalla libanese. Quindi ci sono 3 svizzeri (compreso il vescovo), 2 italiani, 1 tedesco, 1 italo-brasiliano, 1 statunitense. Le suore sono di varie nazionalità, 3 sono italiane.
Avete opere caritative-assistenziali? Di che tipo? A chi sono rivolte? Sono molte le persone ne usufruiscono?
Non abbiamo realtà istituzionali, non c’è la Caritas nelle nostre parrocchie, perché qui vige la sharia. Facciamo molto ma con un profilo basso, non ufficiale. Nelle parrocchie ci sono gruppi che operano privatamente. A Dubai i Samaritans forniscono assistenza legale e aiuti materiali a chi ne ha veramente necessità, soprattutto le persone che devono lasciare il paese e non hanno nemmeno il denaro per il biglietto aereo e quelle che hanno bisogno di cure mediche che non sono in grado di pagare. Il governo controlla attentamente le attività di beneficienza, perché in passato sono state lo schermo dietro a cui operavano movimenti estremisti. Questo è un paese dove possono risiedere solo gli stranieri che hanno un permesso di lavoro, o almeno uno dei due coniugi ha un lavoro adeguatamente retribuito e può garantire per l’altro. A causa di questo, negli ultimi tempi molte famiglie o singoli componenti delle stesse sono dovuti rientrare in patria, a causa del carovita o della perdita dell’occupazione. Altra attività caritativa è quella della Jesus Youth, un gruppo giovanile carismatico che visita i campi di lavoro per offrire ai lavoratori assistenza spirituale e che a Natale e Pasqua porta pacchi dono ai più bisognosi. Oltre a loro anche la Legio Mariae, la Youth for Christ e le Couples for Christ abbinano alla preghiera di tipo carismatico varie attività caritative. Ma si tratta di attività informali.
Alla Chiesa è riconosciuta personalità giuridica negli Emirati?
In senso stretto, no. Tutti gli atti amministrativi fanno riferimento alla chiesa di san Giuseppe ad Abu Dhabi. Grazie al riconoscimento diplomatico fra Emirati e Santa Sede anche il Vicariato dell’Arabia meridionale ha avuto una certa misura di riconoscimento, ma solo in quanto gli atti portano la mia firma a in quanto Vicario apostolico. Viene riconosciuta la mia funzione.
Cosa fa la Chiesa per i problemi molto particolari che hanno le donne immigrate?
Effettivamente le donne che lavorano come domestiche sono la categoria di immigrati meno protetta. Gli Emirati hanno firmato molti accordi internazionali conformi alle richieste dell’Ufficio internazionale del lavoro (Ilo), ma per quanto riguarda le colf c’è molto da fare. Non avendo accesso alle famiglie presso cui lavorano, non le vediamo e non sappiamo dove sono, tranne quando qualche loro amica ci riferisce di una particolare situazione. Quando non vengono pagate come speravano e le condizioni di lavoro si rivelano diverse da quelle che erano state loro riferite, fuggono e, se sono cristiane, vengono a cercare rifugio nelle parrocchie. Quelle di origine filippina vengono accolte in una casa di ospitalità gestita dall’ambasciata filippina, che organizza il loro rimpatrio. In quella casa ci sono sempre 200-300 donne.
Avete una pastorale del lavoro?
Da parte dei preti è minimale, perché hanno tantissimo lavoro in parrocchia e perché non è facile avere accesso ai campi di lavoro in quanto sacerdoti. Qualche volta i datori di lavoro ce lo permettono, ma è molto più facile che lascino entrare i nostri laici.
Succede che sorgano conflitti per motivi di ordine religioso, sui luoghi di lavoro o in altri ambiti sociali?
No, al massimo qualche sottile discriminazione indiretta. Per esempio in alcune carceri succede che i detenuti di fede musulmana abbiano la precedenza quando c’è la possibilità di fare telefonate. Ma generalmente no. Anche perché i timori delle autorità in materia di religione in questo paese non sono causati dalla presenza dei cristiani, ma dal sospetto che operino islamici radicali: questa è la cosa che le allarma di più e contro cui vengono mantenuti alti livelli di sicurezza.
Questo sembra essere un paese con pochissima criminalità. Di solito si pensa che dove ci sono molti immigrati anche i tassi di criminalità sono alti. Perché qui non è così?
Le persone che vengono qui arrivano con un contratto di lavoro e vogliono restare quanto più tempo possibile per guadagnare quello che sperano. Hanno molta paura di perdere il permesso di soggiorno, e questo ha un effetto sui comportamenti: chi sbaglia andrà in prigione e poi sarà espulso. Qua non arrivano richiedenti asilo, chi viene qui ha un contratto di lavoro o ha parenti sul posto che garantiscono per loro. C’è qualche clandestino, persone che hanno perso il lavoro e restano qui illegalmente, ma sono pochissimi.
Tornando alla questione del catechismo: i bambini che frequentano sono migliaia divisi in poche parrocchie. Come fate a organizzare il catechismo per loro?
Abbiamo alcune scuole parrocchiali, e nei giorni di venerdì e sabato le lezioni sono sospese. Allora usiamo le aule scolastiche per il catechismo. L’unica parrocchia dove la situazione è critica è quella di Sharjah, perché lì gli iscritti sono 4-5 mila a seconda degli anni e non esiste una scuola cattolica. Bisogna ammettere che i gruppi sono un po’ troppo grandi per fare bene le cose, a volte bisogna imporre la disciplina in modo quasi militare. Normalmente nello stesso orario del venerdì un gruppo è a Messa e l’altro fa catechismo, poi si scambiano di posto; gli altri frequentano il sabato. Tutto funziona senza troppi problemi, è un vero miracolo! Anche perché il livello di formazione è buono, la maggioranza dei nostri bambini conosce le verità di fede molto meglio di quelli europei. Sono molto più socializzati nella Chiesa di quanto avvenga in Europa: in famiglia si prega, il venerdì vengono a Messa. Indiani e filippini sono molto impegnati a trasmettere la fede ai figli. A volte tocca a me, che sono il vescovo, moderarli, e dirgli che una famiglia non è un monastero di contemplativi, che non devono esagerare altrimenti un giorno ci sarà una reazione da parte dei figli. Ogni giorno molte famiglie pregano insieme il Rosario. Il fatto di essere esposti a un ambiente che non è cristiano li spinge a uno sforzo maggiore verso la loro fede. Inoltre bisogna dire che quella degli Emirati non è una società secolarizzata o atea, bensì marcata dalla religiosità, per la precisione dai gesti religiosi dell’islam: il muezzin chiama con gli altoparlanti alla preghiera cinque volte al giorno, le persone sono orgogliose di mostrare pubblicamente la propria religione. Indirettamente questo aiuta anche noi cristiani a essere meno timidi nel testimoniare la nostra fede.
È strana questa mescolanza di grattacieli modernissimi e religiosità molto tradizionale, di lusso e senso del sacro. Questa è una società talmente zelante sotto l’aspetto religioso che le sue leggi si basano interamente sulla sharia, la legge coranica, ma contemporaneamente le persone sembrano vivere secondo le logiche del materialismo consumista. Come ve lo spiegate?
Bisognerebbe chiederlo ai musulmani di questo paese, io non posso rispondere al loro posto. Per quanto riguarda i nostri cristiani, con poche eccezioni sono persone povere o di classe media. Il denaro ha una notevole importanza per tutti, perché chi viene qui cerca un lavoro che gli permetta di guadagnare. I genitori lavorano per dare una formazione e un’educazione ai loro figli, per avere una casa decorosa. L’aspetto materialista, la tentazione consumista a volte si insinuano anche nella mentalità dei cristiani: sono mali da affrontare, ma senza criminalizzare nessuno. Anche perché nei confronti del denaro il problema dei cristiani è un altro: molto spesso gli immigrati sono sotto pressione da parte dei loro parenti rimasti in patria, che si attendono di ricevere aiuti finanziari da parte loro. Molta gente crede che ad Abu Dhabi o a Dubai basta grattare la terra per trovare l’oro, ma non è così: tante persone non hanno fatto fortuna, e quando hanno capito che non avrebbero potuto mandare nulla a casa perché nulla avevano, per la vergogna si sono suicidate. Non si tratta di centinaia di casi, ma comunque ce ne sono stati troppi. In India e nelle Filippine è buona norma sociale portare regali importanti quando si torna in patria. C’è una pressione culturale tremenda in questo senso. La stessa cosa dicasi delle grandi celebrazioni: battesimi, comunioni, cresime richiedono l’offerta di grandi feste molto costose. Conosco persone che si sono indebitate per il resto della vita per celebrare un matrimonio sfarzoso, soprattutto fra i filippini. Per questo da alcuni anni abbiamo cominciato a proporre e organizzare matrimoni collettivi: dieci, venti anche trenta coppie si sposano nello stesso giorno e fanno la festa in parrocchia. In questo modo la celebrazione è dignitosa e costa molto meno. L’iniziativa ha avuto un certo successo: quando l’abbiamo spiegata bene, l’hanno accettata volentieri. In questo modo abbiamo anche ridotto il numero delle convivenze senza matrimonio, praticate dalle coppie che dicono di non essere abbastanza ricche per potersi sposare con lo sfarzo che tutti si aspettano.
Quali sono le associazioni, movimenti, gruppi cristiani più importanti e più impegnati?
Vi ho già accennato prima. Fra i filippini sono particolarmente diffuse le Couples for Christ, la Legio Mariae e il gruppo carismatico El Shaddai; fra gli indiani la Jesus Youth, gruppi carismatici e la Legio Mariae. A livello informale operano gruppi di CL, Opus Dei, Focolarini.
Quanti dei vostri cattolici sono qui con la famiglia e quanti senza?
Non lo so. Ma se consideriamo che i bambini del catechismo, che vanno dai 6 ai 14 anni, sono 30 mila e i cattolici quasi un milione, ci accorgiamo che la maggioranza vive qui senza i figli. In molti casi li rimandano in patria al momento degli studi universitari o anche prima al momento di frequentare le scuole medie superiori, perché qui gli stranieri possono iscriversi solo nelle scuole private, che sono molto costose; e le nostre scuole parrocchiali, che sono più economiche, non hanno posto per tutti. Questa minoranza di famiglie riunite è però la spina dorsale delle parrocchie, si coinvolgono come i single non possono fare.
C’è una pastorale speciale per gli immigrati separati dalla famiglia?
Come ho detto, di questi ultimi è difficile curarsi perché non abbiamo accesso facile ai campi di lavoro dove vivono: li incontriamo, ascoltiamo e aiutiamo quando vengono a cercarci in parrocchia. Per le famiglie invece esistono family ministries, laici che si occupano dei problemi delle coppie dopo essere stati formati in parrocchia. Poi ci sono i movimenti laicali filippini come le Couples for Christ, i Singles for Christ, le Maiden for Christ che si occupano sia delle famiglie riunite che di quelle separate a causa dell’emigrazione e dei single. Sono veramente molto organizzati.
Ci sono estremisti religiosi in questo paese?
Quelli che c’erano sono stati messi in condizione di non nuocere.
Ricevete minacce? Siete mai stati attaccati?
Fino ad ora no, fortunatamente. E anche le misure di sicurezza non sono opprimenti. Vengono rafforzate in momenti speciali come il Natale e la Settimana Santa. Ma normalmente le persone possono accedere alle nostre chiese senza particolari controlli.
Come sono i vostri rapporti con l’islam degli Emirati?
Periodicamente ho contatti con ufficiali del governo, in particolare col ministro della Tolleranza, Sheikh Nahayan Mabarak Al Nahayan, e il consigliere presidenziale per gli Affari religiosi (l’equivalente del Gran Mufti nei grandi paesi islamici – ndr) Sheikh Ali Al Hashimi. Qualche volta sono invitato a eventi interreligiosi. Ma bisogna ammettere che qui vivono due società parallele, che mantengono rapporti buoni, talvolta anche amichevoli, quando entrano in contatto. Non c’è un dialogo interreligioso sistematico, ci sono eventi occasionali.
Come sono i rapporti con i cristiani di altre confessioni?
Esiste una Gulf Churches Fellowship, che è una versione informale di un Consiglio ecumenico delle Chiese, che si ritrova una volta all’anno per due giorni, e nel frattempo c’è un comitato esecutivo che tiene i rapporti. Vi partecipano anglicani, greco ortodossi, copto ortodossi, evangelici, ecc. I rapporti con le Chiese storiche sono buoni, soprattutto con gli anglicani. Direi che la questione ecumenica è più interna alla Chiesa cattolica che esterna: c’è molto da fare nel rapporto con le Chiese orientali e con la diversità culturale fra le nazionalità. C’è un altro fenomeno da segnalare: poiché le nostre chiese sono costantemente sovraffollate, alcuni cattolici preferiscono andare presso i gruppi protestanti, dove trovano un ambiente più raccolto e intenso, e a volte vantaggi materiali. Capita pure che questi gruppi distribuiscano volantini ai nostri fedeli che vanno a Messa. Ho detto loro che, pur desiderando mantenere i rapporti, non gradisco questo comportamento, che noi cattolici non pratichiamo nei loro confronti.
In conclusione, se dovesse esprimere un giudizio sull’effetto che l’immigrazione ha sulla vita e sulla fede dei cristiani che vengono a vivere e a lavorare qui, quale sarebbe? La fede cristiana degli immigrati diminuisce e scompare nel tempo, oppure cresce e matura?
Nella grande maggioranza dei casi, cresce e matura. Molti approfondiscono la fede, pochi la perdono. Alcuni abbandonano il cristianesimo per potere sposare donne musulmane o, se sono donne, per essere mantenute da un musulmano come seconda moglie, ma la maggior parte di loro vive qui un’esperienza di fede più intensa. In questi anni fra gli immigrati e i loro figli si sono manifestate vocazioni religiose e sacerdotali. Due anni fa ho impartito l’ordinazione a due giovani indiani cresciuti qui, che sono diventati sacerdoti cappuccini. Altri li ho mandati alle loro Chiese di origine perché si formassero là, e sono diventati preti in India, nelle Filippine, in Australia.

@RodolfoCasadei


Foto Ansa

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