Sul Riformista del 7 maggio, a corredo della vittoria di Tony Blair alle elezioni generali britanniche, compariva un articolo dal titolo intrigante: «Se i blairiani d’Italia si dessero la mano». A firmarlo non un esponente della sinistra liberal diessina ma bensì Maurizio Sacconi, sottosegretario al Welfare del governo Berlusconi ed esponente di un “riformismo del fare” che va oltre gli steccati ideologici e le facili catalogazioni. è possibile questa “stretta di mano”? Tempi ha cercato di dare una risposta a questa domanda insieme al diretto interessato, al protagonista della provocazione, Maurizio Sacconi.
Sottosegretario Sacconi, come dobbiamo leggere gli allarmanti dati economici comunicati dall’Istat alla luce della sua proposta di unire le forze in nome del fare? Quale può essere la via d’uscita dal declino?
La diagnosi che faccio in estrema sintesi riguarda la nostra bassa crescita e si lega, da un lato, alla forte trasformazione che sta subendo un’industria manifatturiera come quella italiana – così esposta ai venti della competizione globale che anche quando intraprende la strada virtuosa dell’internazionalizzazione può abbattere il pil attraverso la delocalizzazione o addirittura il trasferimento di produzione – e, dall’altro, all’altrettanto insufficiente peso dell’economia dei servizi. Noi italiani, infatti, manteniamo ancora una quota di produzione manifatturiera superiore anche agli Usa ma nei servizi la nostra crescita è troppo inferiore a ciò che potrebbe essere e che deve essere in un mercato che vedrà i 4/5 dei nuovi lavori proprio nel settore del terziario. Servirebbe una più forte spinta per liberare le potenzialità della stessa terziarizzazione, azioni più drastiche sia di deregolazione che di ri-regolarizzazione e ricalibrazione delle politiche. Il nostro paese è legato, immobilizzato, di fronte al grande cambiamento a causa dei sovraccosti della logistica, dell’energia elettrica e dell’elevato cuneo fiscale e contributivo del lavoro. Cui si aggiunge un’amministrazione pubblica pesante e non certo amichevole verso chi vuole intraprendere, oltre a un sistema di relazioni industriali ancora tarato sulla produzione seriale e non idoneo a far lievitare il terziario, settore per definizione iperflessibile. Cosa ha invece aiutato il Regno Unito a essere il paese europeo più intraprendente? La felice continuità tra la Thatcher e Blair. L’Inghilterra gode da un lungo periodo di una guida di governo che ha lavorato in nome di modernizzazione, terziario e flessibilità.
Da questo punto di vista l’Unione Europea stessa sembra remare contro, basti pensare ai 23 interventi in 14 mesi per annacquare la tanto vituperata direttiva Bolkestein o al voto dell’Europarlamento per eliminare l’opt out, la deroga alla legislazione comunitaria che stabilisce a 48 il tetto settimanale di ore lavorate. Fino ad oggi, infatti, la Gran Bretagna aveva costruito su questo il suo straordinario rally economico…
In effetti la Commissione lavora spesso e volentieri in direzione opposta a quella necessaria. Noi abbiamo sostenuto e sosteniamo la posizione britannica sull’opt out: come governo italiano lo chiedevamo per quanto riguardava la regolazione collettiva mentre gli inglesi, ovviamente, a livello personale di lavoratore e datore di lavoro. Perché irrigidire ulteriormente il mercato del lavoro? è folle. Per questo dico che dobbiamo usare con determinazione i vari diritti di veto contro queste rigidità insieme a Gran Bretagna, Irlanda e Polonia, il nucleo che spinge per la liberalizzazione. Italia e Gran Bretagna, d’altronde, hanno governi liberali socialmente orientati: le culture liberali devono dare una spallata non ideologicamente liberista ma di un intelligente impulso modernizzatore per regole, istituti e oneri di una società industriale che non esiste più. Dobbiamo incontrarci sul terreno di una nuova flessibilità e non di una nuova rigidità.
In quanto a rigidità e modelli passati la disputa sul rinnovo del contratto dei dipendenti statali è stata veramente un esempio illuminante. Cosa ne pensa?
L’amministrazione pubblica in tutti i ranking di competitività è la voce che ci fa essere ultimi nelle classifiche europee. è il modello contrattuale a non andare bene, poiché scontenta tutti omologando tutte le categorie. Dobbiamo uscire da questa trappola, ma questo sarà possibile solo se il sindacato accetterà di uscire dalla logica della retribuzione che rende uguali e ridicoli gli incrementi per la produttività, insensibili per chi li ha percepiti ma sensibili per lo Stato che li ha erogati. Bisogna dare una spinta per il recupero di efficienza nella pubblica amministrazione e questo si ottiene esaltando la responsabilità delle persone.
In Gran Bretagna c’è assoluta centralità della persona, si parla di “responsabilità e opportunità”, un binomio che è la molla che fa scattare la spinta al cambiamento. Prendiamo i giovani, gente che entra tardi e male nel mondo del lavoro, una vera emergenza: si laureano a 28 anni con titoli che a quella età sono poco spendibili e senza alcuna esperienza lavorativa. Inoltre sospingono in avanti tutte scelte responsabili della loro vita, escono di casa tardi, si sposano tardissimo, fanno figli tardi. Cosa gli diciamo, cosa gli diamo? Ancora più tutele e garanzie, quando è proprio l’eccesso di garanzie e tutele a bloccarli, a gettarli in un circolo vizioso? Diamogli invece responsabilità e opportunità affinché imbocchino un circolo virtuoso e non vizioso, anche per quanto riguarda l’età delle scelte: questo è il blairismo per l’Italia. Pensiamo alle tuition fees inglesi, ovvero alla possibilità di pagare la retta universitaria una volta laureati e con un posto di lavoro: non è una strategia di opportunità e responsabilità vincente? Qui invece Nichi Vendola parla di salario garantito: guai a fare una cosa simile, i soldi fissi e “a prescindere” non stimolano ma illudono di poter campare ai margini del mercato sommando coabitazione con i genitori al lavoretto in nero e al sussidio statale. Ecco la trappola.
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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Emanuele Boffi