Sabato scorso a Monza ho partecipato a un seminario, organizzato dalla diocesi, sull’integrazione degli immigrati. Sappiamo che purtroppo ci sono stranieri che faticano a integrarsi in Italia. I motivi sono molteplici: dalla difficoltà nel trovare un lavoro (difficoltà condivisa da molti italiani) a quella nel trovare una casa (anche qui, ahimè, si condivide…). Noi e loro condividiamo spesso tanti problemi che fanno parte della vita quotidiana. E che in tempi di crisi si acuiscono. Inoltre condividiamo un sentimento che nel loro caso è comprensibile, nel nostro meno: il non sentirci italiani. Tanti italiani non si sentono tali. Tranne quando gioca la Nazionale. All’estero ci considerano tutti italiani, da Bolzano a Siracusa: una nazione, uno Stato, una lingua. Ma molti di noi non sentono di far parte di un’unica entità. O lo sentono molto vagamente. O addirittura se ne vergognano. Perché da noi manca, quasi completamente, il patriottismo: quel sentimento di orgoglio di far parte di un popolo. Popolo è diverso da etnia: chiunque viva in Italia, e si senta italiano, fa parte del popolo italiano. Anche se è di etnia marocchina, rumena, albanese o rom. L’etnia non importa. E’ il sentimento di appartenenza a un popolo, a una nazione che importa. E’ questo che produce il patriottismo. Elemento positivo, ben diverso dal nazionalismo, che invece è deleterio; come meglio di tanti intellettuali ci ha spiegato il comico Roberto Benigni a Sanremo.
L’Italia compie 150 anni, ma quanta fatica per legiferare su un giorno – uno, mica un mese – in cui festeggiare il compleanno della nostra nazione. Non c’entrano, come è evidente, motivi economici: quelli sono solo pretesti. C’entra il fatto che molti di noi non si sentono affatto italiani. E quindi non vedono cosa ci sia da festeggiare.
Se noi italiani d’origine non ci sentiamo italiani, come possiamo pretendere che si sentano italiani gli italiani d’adozione? Come possiamo chiedere a uno straniero di integrarsi, di vivere da italiano quando noi stessi non siamo d’accordo su cosa significhi essere italiani, o addirittura non ci riteniamo italiani? Uno dei motivi della grandezza degli Stati Uniti è la sua straordinaria capacità di integrare chiunque, da qualunque parte del mondo provenga. Fino a nominarlo Presidente, come nel caso di Obama. Che è afro-americano. Così come ci sono indo-americani, sino-americani, italo-americani. Tutti americani. Tutti fieri di sventolare la bandiera a stelle e strisce. E di celebrare la festa nazionale il 4 luglio. Noi no. Noi siamo psicologicamente ancora divisi, come prima del Risorgimento. Non diversi: la diversità è ricchezza. Ma divisi: e la divisione è stupidità. Così in Alto Adige c’è chi si sente non sudtirolese e italiano, come sarebbe giusto, ma solo sudtirolese; in Lombardia chi si sente non lombardo, settentrionale o padano che dir si voglia e italiano, ma soltanto padano; in Sicilia chi si sente non isolano, meridionale e italiano, ma soltanto neoborbonico. Di questo passo ci sarà chi si sente solo cittadino della contrada di Roccacannuccia di Sotto, o del quartiere, o del condominio.
L’Italia non deve necessariamente essere “una d’arme, di lingua e d’altare”, come auspicò Alessandro Manzoni; perché gli altari, cioè le religioni, possono essere varie. Ovviamente si può benissimo essere musulmani, ebrei, buddisti o non credenti e contemporaneamente essere ottimi italiani. Ma la lingua, oltre all’esercito, dev’essere una. Pur tutelando e valorizzando i dialetti, prezioso patrimonio culturale. Però che succede quando l’istituto Dante Alighieri, che promuove la lingua italiana nel mondo, resta senza soldi? Chi fa la colletta per darglieli? Qualche mecenate italiano? Macché. E’ stato un imprenditore di Parma, siriano e musulmano, Radwan Khawatmi, ad allargare i cordoni della borsa. Dando una bella lezione di italianità a tutti noi.