La prossima volta mi prendo un taxi

Di Caterina Giojelli
15 Ottobre 2020
Cronaca di una cavalcata in tacco 12 a bordo di un monopattino supposta volante (io voglio morire su uno shuttle nello spazio, non sul cofano di un Suv)
Una donna sul monopattino elettrico in piazza Duomo a Milano

Articolo tratto dal numero di ottobre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Mica devo inseguire un ghepardo nella savana, poi guidare è come parlare, allunghi, accosti, parcheggi, e non per vantarmi ma coi tacchi ho fatto la Via Crucis fino allo sperone roccioso di San Leo, figurati se mi impicciano sul monopattino elettrico. Così ai maschi miscredenti di Tempi, mentre stivalata scelgo una compagnia di sharing tra Helbiz-Bit-Bird-Lime-Wind-Voi-Dott-Circ (seee, direttor-dott-ing-gran-ladr-di-gran-croc, sghignazzo pensando agli striscioni che qualche genio pirla ha appeso a Parma, “Il monopattino è una cagata pazzesca”) e tac: l’era della mia personale micromobilità elettrica sostenibile su tacco 12 ha inizio.

In un attimo non mi sento più un pedone che odia le auto, un automobilista che odia le bici, un ciclista che odia auto e pedoni, una décolleté che odia le Superga, non odio niente e nessuno perché il monopattino è odiato da tutti eccetto che dagli asburgici progressisti che amano Beppe Sala che dice che «il monopattino elettrico si sta diffondendo in tutte le grandi città internazionali ed è naturale che sia così anche a Milano». Il fatto che in realtà tutte “le grandi città internazionali”, da Parigi a New York ai centri del Regno Unito, ne abbiano vietato l’uso, è un dettaglio: solo a scaricarla, l’app di Lime mi fa sentire accolta nell’ecoparrocchietta Fridays for Future (ma vestita bene) che se ne frega di quanto costi in termini di emissioni produrre e importare quel trabiccolo finto ecologico – molto più di una corsa in autobus, ma vuoi mettere?

«Che c’è? Non va? È scarico?»

L’app localizza il bolide più vicino in zona Buonarroti, proprio dove l’ultimo 27enne è caduto ed è stato portato in codice giallo al San Carlo; benissimo, denuncerò le insidie della civettuola e signorile via Buonarroti, vedo già il trailer: «Caterina non sapeva salvare il pianeta ma sapeva leggere Repubblica (qui scorrono i titoli sui 151 incidenti registrati in tre mesi e mezzo, le foto dei 353 verbali da 50 euro l’uno comminati ai monopattinisti, Sala che twitta duro come un togato a Capitol Hill: “Il codice della strada non può essere sottoposto a interpretazioni, né a deroghe”). Finché un bel giorno Caterina trovò quello che stava cercando» (e qui la camera inquadra il luogo localizzato dalla app).

Un albero? Il fatto è che secondo la app il monopattino sta proprio lì, dove vedo solo auto parcheggiate a pelo di tronco. Abbraccio la pianta per sbirciare oltre, ed eccolo, incastrato tra le radici. Sudando come un alpino sul Pordoi lo raggiungo, lo sblocco inquadrando il qr code, questo emette una scoreggia sonora avvisandomi che ora devo avviare la corsa, ma che ti avvio nell’unico angolo di Amazzonia a Milano? Provo a sollevarlo ma incagliato nelle radici pesa come un cinquantino, volevo dire come una piroga del Rio Tapajós (piena di indios), finché adocchio un tizio con la giacca di pelle, sinonimo universale di grande maschiosità, dico «aiuto», e di lì a poco eccomi, in strada, col Lime e mister giacca di pelle che non vedendomi partire ripete a disco rotto «che c’è? Non va? È scarico?».

«Se ne vada, chiamo la polizia»

Ok, non ho la più pallida idea di come avviarlo, figuriamoci sapere se è carico, però insomma, la bambina con la moto a pile di Barbie che c’è in me prende in mano la situazione, una spinta di tacco unitamente al tasto di accensione e via: sono in piedi, sfilo, coi capelli al vento, sono Rose a prua del Titanic ma senza Jack alle spalle e iceberg davanti, sono l’amazzone del nuovismo che avanza, proiettata dagli ecobonus del decreto rilancio verso il futuro. O almeno fino all’incrocio con via Ravizza: subito vengo inghiottita da una colonna sonora di clacson e di «bella, venivo da destra», di portiere di auto parcheggiate che si aprono all’improvviso, di moto e auto che ti sfrecciano accanto inchiodandoti al deretano di quelle in doppia fila, di incroci, rotatorie, solcati da mezzi imbizzarriti e tu piccola, ridotta a entità fisica in balìa del traffico e dei dislivelli, rotaie e pavé. Ecco, il pavé, mi tremano anche le cellule mentre realizzo che devo trovare una ciclabile come Sala comanda, e che grazie a Dio non ho la gonna né potrei metterla, a meno che voglia riciclarmi nel settore pubblicità progresso della body positivity delirium tremens per liberare il mondo dallo stereotipo delle Hunziker in mutande.

Inforco un passo carraio lenta lentissima, so che non si fa sui marciapiedi, ma la ciclabile sta a cento metri in contromano e non voglio sprecarne cinquecento schiantandomi contro un Suv, visto che sogno di morire nello spazio su uno Space Shuttle Challenger, mica su un monopattino con la pecetta verde lime tra le case domotiche. Neanche il tempo di mettere il tacco a terra che vengo raggiunta dagli improperi di una anziana: «Se ne vada, chiamo la polizia». Balbetto «ma anche io sono un pedone signora, sono una di voi», mentre fondo un caleidoscopio di ricordi di monopattini che sbarrano cose, l’ingresso della metro, mamme con le carrozzine, posti moto, vetrine di scarpe, monopattini che tirano fuori il minotauro salviniano che scalpita in tutta Italia, che vengono buttati giù da Ponte Milvio nel Tevere o gettati nel Naviglio come motorini in Curva Nord al Meazza, ricordo quello truccato che sfreccia a 80 chilometri orari sulla provinciale veronese, quello postato su Instagram da quel fulmine di guerra della fidanzata di Stefano Sensi (entrambi sullo stesso coso elettrico col barboncino in braccio e in spregio al codice della strada e agli incazzosissimi dirigenti dell’Inter), quello guidato da tale youtuber Jakidale per coprire i 646 chilometri che separano Milano e Roma, in undici giorni, «così non inquino». E io che sto pensando di farmelo caricare su un taxi.

Missione compiuta

Mentre mi chiedo se tutta ’sta moda del balocco ecologico non l’abbiano lanciata i produttori del Lasonil o gli ortopedici disoccupati da Covid, mi viene incontro una truppa di monopattinisti in giacca e cravatta, occhiale da sole, mascherina, auricolare, procedono in ranghi serrati come sentinelle di Matrix, c’è anche una donna: ha i mocassini. Cerco di raddrizzarmi sui tacchi e fissarli con la stessa gelida premeditazione che scintillava negli occhi di Lucrezia Borgia, Mata Hari, Giovanna d’Arco e Rita Levi Montalcini il giorno in cui scoprì il Fattore di Crescita Nervosa mentre spingo a mano il Lime fino alla ciclabile per iniziare lo slalom tra rami, buche, ciclisti, tricicli, attraversamenti di studenti.

Ne ho piene le balle, non so neanche in che via mi trovo ma so che se insisto con questa idea di cavalcare una supposta volante finirò dritta sulla scena di un delitto mafioso, un vulcano in eruzione, un attentato jihadista. Mi fermo, arresto la corsa, mi appello al quinto emendamento per non commentare l’importo (14 euro per boh, quaranta minuti?), mi rifiuto di inviare a Lime come vuole l’app una foto del mio parcheggio ma ne mando una in redazione, «missione compiuta». «Mitica! Poi dicci in quale ospedale sei ricoverata», rispondono i maschi di Tempi che ne sanno sempre una più delle femmine coi tacchi.

Foto Ansa

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