Memoria popolare

La nascita del “Sabato”. E come c’entra il Movimento Popolare

Di Redazione
27 Settembre 2024
Prima puntata del viaggio agli albori di un settimanale che fu legato per molti anni a Mp, pur rimanendo sempre indipendente, destinato a diventare lettura di riferimento per tanti
La prima pagina del settimanale “Il Sabato”, 27 maggio 1978
La prima pagina del settimanale “Il Sabato”, 27 maggio 1978

Il 27 maggio 1978 usciva il primo numero de Il Sabato, il settimanale che per molto tempo sarà collegato ai destini del Movimento Popolare. La prima sede romana del periodico coincise infatti con quella del movimento fondato quasi tre anni prima a Milano, e la nascita del giornale fu dovuta alla volontà politica e al talento organizzativo di Roberto Formigoni e di Fiorenzo Tagliabue, cioè il coordinatore nazionale e uno dei principali dirigenti del Movimento Popolare.

In nessun modo il settimanale rappresentava l’organo ufficioso del movimento, dava anzi spazio a tutte le realtà del mondo cattolico, anche quelle che non si erano riconosciute nell’iniziativa di Mp, e operava indipendentemente secondo logiche genuinamente giornalistiche. La proprietà era rappresentata da una cooperativa di giornalisti, la Lca. Gli esponenti del Movimento Popolare o ad esso affini venivano intervistati od ospitati con articoli a loro firma normalmente alla vigilia o subito dopo gli appuntamenti elettorali.

Il deputato Sanese contro il Pci

Per esempio nel numero del 26 maggio 1979, che celebrava il primo anno di pubblicazioni e usciva alla vigilia delle elezioni politiche anticipate del 3-4 giugno, si trova un’intervista a Nicola Sanese presentato come «responsabile commercio e turismo della Dc». Sanese era già parlamentare dal 1976 ed era il responsabile più in vista del Movimento Popolare a Rimini, si presentava alle elezioni per la riconferma, che sarebbe avvenuta con un ottimo risultato personale a livello di preferenze.

L’VIII legislatura sarà quella che vedrà l’allontanamento del Pci dall’area di governo, alla quale si era avvicinato astenendosi dal votare contro i governi Andreotti III e Andreotti IV nella VII legislatura. A Sanese viene posta una domanda proprio su questo argomento: «Uno dei punti di forza della campagna elettorale democristiana è l’assicurazione che non si accetterà in nessun caso di fare un governo insieme ai comunisti. Al di là di facili atteggiamenti pregiudiziali, quali sono le motivazioni che sostengono una tale posizione?».

Risponde Nicola Sanese:

«Preferisco dire cosa ne penso io. Mi sembra che nonostante taluni mutamenti, la vocazione all’egemonia del Partito comunista sulla società italiana resti la principale caratteristica di questo partito. Nel ’76 si ha il massimo sforzo del Pci di presentarsi come l’erede della tradizione culturale marxista, del socialismo riformista, della cultura laica e persino del meglio del cattolicesimo italiano. Alcuni fatti successivi hanno poi iniziato a smontare questa visione e oggi è in crisi chi crede che il Pci abbia la formula per coniugare totalitarismo marxista, democrazia borghese e perfino un certo solidarismo cristiano. La crisi del marxismo, e perciò del comunismo, consiste nell’aver prediletto e nel continuare a porre sistematicamente l’accento, sul programma, sulla teoria, sul progetto, e non sull’uomo, sulla sua realtà storica, sui suoi bisogni e sulle sue esperienze umane. In secondo luogo non può sfuggire come il Pci, in questioni grosse e decisive di carattere internazionale, si sia trovato allineato, anche se in forme apparentemente più moderate, con l’Unione Sovietica o i suoi satelliti. Quantomeno il Pci ha perso in questi ultimi anni molte occasioni per dar prova in concreto della sua pretesa autonomia dall’Urss».

«Sono di Mp ma non in esclusiva»

L’ultima domanda dell’intervista permette a Sanese di precisare i suoi rapporti col Movimento Popolare: «A cosa si sente maggiormente debitore nell’esperienza di questi anni?».

Risponde Sanese:

«La mia esperienza umana è stata segnata soprattutto dall’impegno nel Movimento Popolare, da qui ho tratto i motivi ideali del mio lavoro. Questo è tutto e non occorrerebbe dire altro. Ma poiché si creano spesso degli equivoci aggiungo che non rappresento nessuno in esclusiva ma tutti coloro che ho incontrato in questi tre anni, con i quali sono diventato amico e con cui ho lavorato, tutti quegli elettori insomma che condividono quei valori e quegli ideali che sanno che mi stanno a cuore e che ritengo possano dare valore e contenuto alla democrazia».

Vittadini e l’importanza di essere «presenza»

Nel numero successivo il settimanale si occupa della realtà degli studenti universitari alla vigilia del voto, e lo fa intervistando uno dei responsabili dei Cattolici Popolari della Cattolica di Milano, che avevano organizzato «una mini-inchiesta sul livello di conoscenze politico-sociali posseduto da coloro che circolano abitualmente per i chiostri dell’ateneo». Si tratta di Giorgio Vittadini, laureando in Economia, che spiega:

«Noi ci siamo, questo costituisce in gran parte la nostra definizione e il nostro progetto. Con una specie di inversione rispetto ai convincimenti comuni potremmo dire che per cambiare occorre esserci, cioè in altre parole la nostra convinzione (che condividiamo con il Movimento Popolare) anche culturale, anche politica è che il mutamento delle condizioni di vita, di ambiente, di storia, nasce esclusivamente da un fatto semplicissimo, ma che è anche generalmente il più ignorato, quello considerato più banale e ovvio: la presenza. Essere in una situazione, comunque si mostri, comunque sia caratterizzata, starci, quasi “sprofondare” in essa, non avere altra certezza che non sia deposta nella propria fragile e tante volte incoerente posizione umana».

Una cultura che «sostiene il lavoro politico»

Domanda Roberto Fontolan, l’autore dell’intervista: «Quindi la vostra è più una cultura, una concezione ideale della vita e della storia che una politica…».

Risponde Vittadini:

«Sì, ma meglio sarebbe dire che è una cultura che sostiene istante per istante il lavoro politico. Quando abbiamo creato le cooperative librarie, alimentari, di appartamento, sportive, e sono ormai diffuse in molte città, lo abbiamo fatto per rispondere ad un bisogno umano e sociale che non era “degli altri”, che noi gestivamo cioè per altri, perché noi siamo organizzati e gli altri no; ma perché è un bisogno nostro, di amici incontrati, di fuorisede conosciuti e coinvolti. […] E così molte altre cose, dalle indagini sull’occupazione per le facoltà umanistiche alle inchieste sugli studenti di colore e sulle loro condizioni di vita, ad iniziative per la gestione del tempo libero e così via. Esserci, vivere dentro la condizione che di fatto ti determina. Questo costituisce il primo essenziale punto di riferimento umano e culturale e oltretutto, in una situazione di “guado” come la nostra, è straordinariamente capace di invenzione e costruzione».

(1. continua)

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