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La morte dell’anima irlandese

Intervista al giornalista John Waters dopo la vittoria del Sì al referendum sull'aborto. "Per non essere più considerati dei barbari ci diamo delle leggi che ci fanno sprofondare nella barbarie"

Rodolfo Casadei
28/05/2018 - 2:00
Esteri
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DAL NOSTRO INVIATO A DUBLINO (IRLANDA). John Waters ha fatto quello che non bisogna mai fare durante una campagna elettorale: nel corso di un dibattito accalorato si è lasciato sfuggire che se i suoi avversari – gli abortisti – avessero vinto largamente il referendum, avrebbe preso seriamente in considerazione l’idea di lasciare l’Irlanda. È il pomeriggio del 26 maggio, e le proiezioni del risultato finale del referendum sull’emendamento anti-aborto della Costituzione irlandese appaiono catastrofiche: il Sì all’abrogazione sta vincendo per 67 a 33. Nella casella di posta elettronica del più corrosivo giornalista, saggista e critico musicale irlandese piovono messaggi tutti uguali: «Sei in partenza? Addio per sempre». «Adesso mantieni la parola, prepara i bagagli e vattene». E così via. L’ironica risposta è la stessa per tutti: «Signore o signora, sono lieto del suo interesse per la mia vita, ed è a motivo di ciò che mi tratterrò ancora nel paese». Resta in Irlanda il polemista che non ha esitato a definire «un coltello pronto ad uccidere» la matita elettorale nelle mani dei votanti per il Sì, e che a un intervistatore ostile ha dato del “fottuto coglione” abbandonandolo solo nello studio. Però nella giornata del trionfo degli avversari dell’ottavo emendamento preferisce incontrare i visitatori a Dun Laoghaire, città portuale a sud della capitale, piuttosto che a Dublino. La sovraesposizione durante la campagna referendaria e il clima di esaltazione dei vincitori potrebbero produrre situazioni spiacevoli. Come quella di qualche giorno fa, quando uno sconosciuto lo ha accostato per strada e ha preso a scattargli foto col cellulare avvicinando ripetutamente l’apparecchio al suo volto. «Perché fai questo?». «Perché sei diventato motivo di imbarazzo per tutta la nazione», è stata la risposta. Ma non è per questo o per altri abusi patiti che Waters ci va giù duro coi giudizi. Il risultato del referendum è la conferma di critiche alla società irlandese che lui formula da parecchio tempo. E che all’indomani di una sconfitta referendaria che lo fa molto soffrire esprime con grande amarezza.
John Waters, una delle cose che più hanno colpito gli osservatori è stato il voto plebiscitario delle giovani generazioni a favore del Sì all’abrogazione della clausola anti-aborto della costituzione: più dell’85 per cento di quanti hanno fra i 18 e i 24 anni ha votato così. Mentre d’altra parte solo fra gli ultrasessantacinquenni il No l’ha spuntata.
I giovani sono persi, istupiditi, sono stati privati dell’educazione alla vita e sottoposti al lavaggio del cervello di un’educazione fortemente ideologizzata, di un giornalismo corrotto, di un’influenza di celebrità corrotte, dei social media che sostituiscono l’emozione al rapporto reale con le cose. Adesso già si parla di abbassare l’età per il voto a 16 anni, per rendere ancora meno influente il voto degli anziani. Questi ultimi vengono colpevolizzati dicendo che hanno votato a favore del No perché sono ancora legati alla Chiesa cattolica, ma la verità è che sono ancora umani, sono dotati di una struttura umana che li rende impermeabili alla manipolazione della propaganda: vedono la realtà che è il bambino e si rifiutano di legittimare la sua uccisione, vogliono difenderlo. L’attuale generazione di giovani irlandesi è la più istruita di tutta la storia dell’Irlanda, e contemporaneamente è la più stupida, perché è stata sottoposta a quella falsa forma di educazione che è l’indottrinamento ideologico. Non sono stati educati alla vita. È la generazione più viziata, più vezzeggiata di tutta la storia dell’Irlanda, ma è convinta di essere oppressa, è la più privilegiata che ci sia mai stata e si comporta come se fosse stata spogliata di diritti e come se fosse discriminata. A questi giovani non importa del futuro dell’Irlanda, a loro interessa solo la qualità materiale della loro vita individuale; non gli importa nulla delle istituzioni e di chi è a guidarle; non capiscono che un giorno toccherà a loro e che non ne saranno capaci. Finché possono continuare a vivere secondo qualsiasi capriccio, non gli importa nulla del governo dell’Irlanda.
Incontrandoli questi giorni per le strade e nei parchi del centro di Dublino, osservando il loro portamento e abbigliamento, come si muovono e come stanno fra loro, ho avuto l’impressione che il loro voto in massa a favore dell’aborto legale sia l’espressione di un’aspirazione all’indipendenza assoluta, di un desiderio di non avere condizionamenti permanenti, di godersi la vita spensieratamente. E una gravidanza imprevista è certamente una limitazione dell’indipendenza, rappresenta l’instaurazione di una dipendenza.
Più che desiderio di indipendenza, che sarebbe una cosa buona, io vedo in loro tanto egoismo. E tanto materialismo nel senso filosofico del termine prima che in quello morale: veramente per loro tutto è materia, esistono solo realtà materiali, e il feto è soltanto un oggetto di cui il suo “possessore” può disporre a piacimento.
Eppure gli slogan degli abrogazionisti dell’emendamento anti-aborto erano “dignity, care, compassion”. Chi ha votato per il Sì si concepisce come una persona compassionevole e attenta alle sofferenze delle donne e alla loro dignità, mentre chi ha votato per il No sarebbe insensibile, capace solo di giudicare il prossimo e ipocrita.
Ci troviamo di fronte a un uso orwelliano delle parole. Quando si tratta dell’uccisione di un bambino indifeso, cosa significano le parole cura e compassione? Abortire con cura, abortire compassionevolmente cosa significa? Non farlo in modo caotico? Dicono: voi siete per le leggi, noi siamo per l’amore (“you are for laws, we are for love”). Dicono: abbiate fiducia nelle donne. Ma se devo avere fiducia in una donna che decide di sopprimere il figlio, non posso che rispondere “no!”. Questa ideologia della compassione è la gemmazione di un’altra ideologia, quellla del vittimismo. Della quale gettarono i semi i filosofi della Scuola di Francoforte. Erano dei neo-marxisti che si ponevano il problema di individuare un nuovo soggetto rivoluzionario dopo che per varie ragioni la classe operaia non poteva più esserlo. E lo hanno individuato fra le vittime della storia: le minoranze etniche, gli afro-americani, gli omosessuali, le donne. Questo genere di impostazione è arrivato qui da noi sull’onda del Sessantotto europeo e del suo equivalente americano di qualche anno prima, ha preso il controllo delle università e ha preparato l’incubazione delle generazioni che ieri hanno votato in massa a favore dell’aborto.
Una femminista irlandese della campagna per il Sì, Ahlbie Smyth, ha fatto una dichiarazione stupefacente. Ha detto che «per gli elettori sotto i 45 anni, non penso che il loro primo impulso sia definirsi come irlandesi e come cattolici». Vada per la religione, ma davvero agli irlandesi sotto a una certa età non importa più nulla della loro identità irlandese?
Amano definirsi irlandesi soltanto in certe circostanze, in modo sentimentale, soprattutto quando sono all’estero. Ma non sanno più nulla della storia del loro paese, disdegnano la lingua e la musica irlandesi, non hanno rispetto per i nostri eroi del passato. In una parola, odiano l’Irlanda, vorrebbero che fosse l’America, pur di trasformare l’Irlanda nell’America accetterebbero di avere anche qui da noi le stragi con le armi da fuoco. Vogliono la distruzione dell’Irlanda storica per trasformarla in qualcos’altro, anche se non sanno bene in che cosa, ma comunque qualcosa che sia come l’America intesa nel senso di un paese dove ognuno può fare quello che gli pare.
Qualcuno ha criticato il nuovo corso irlandese dicendo che ora il paese non è più distinguibile dall’Inghilterra.
L’Inghilterra non è un modello per gli irlandesi di oggi non a motivo del passato coloniale, ma perché è un paese troppo carico di cultura e di storia per loro, e questo li fa sentire inferiori. Non sanno che anche l’America non è la caricatura che arriva loro dai media, non sanno che l’America è molto più acculturata e riflessiva di quello che immaginano. Ma per loro l’America è semplicemente lo spazio vuoto dove tutto è possibile. Dove è possibile una libertà indefinita, non definita dai limiti umani, dalla appartenenza a una comunità e a una storia: la libertà di una società atomizzata.
A proposito del rapporto con l’Inghilterra, lei hai parlato di complesso postcoloniale, ha rievocato Frantz Fanon che scrive che il colonizzato interiorizza la sua inferiorità e tende, anche quando conquista l’indipendenza formale, a imitare il colonizzatore. Ma fino agli anni Ottanta l’Irlanda faceva il contrario del Regno Unito per quanto riguardava divorzio, aborto, politica estera, rapporti con l’Europa, ecc. L’imitazione irlandese della secolarizzazione britannica è molto recente.
Quello che gli irlandesi hanno fatto negli ultimi anni, imitando Londra per quanto riguardava divorzio, matrimonio omosessuale e oggi aborto, si spiega col complesso di inferiorità nei confronti dell’ex potenza coloniale: ci hanno sempre considerato dei selvaggi, e oggi facciamo vedere loro che siamo gente civile anche noi. Per non essere più considerati dei barbari ci diamo delle leggi che ci fanno sprofondare nella barbarie, come questa sull’aborto! Ma questo complesso di inferiorità si è espresso in modi diversi nel tempo. All’indomani dell’indipendenza la classe dirigente si è data il programma di estirpare dal paese ogni traccia dell’eredità britannica e dell’influsso protestante. Una cosa sbagliata e impossibile, un altro modo di negare la storia dell’Irlanda, che ha dato luogo a una politica e a un clima culturale di tipo reazionario. Questa atmosfera reazionaria ha provocato un rigetto che si è manifestato a partire dagli anni Sessanta, come ho detto prima, che ci ha spinti alla mimesi dei comportamenti e dei valori del colonizzatore che vediamo oggi. L’Irlanda è un paese piccolo, facile da manipolare. Quando ho cominciato io a fare il giornalista non c’erano scuole di giornalismo. Poi sono state create le prime due e sono state affidate a docenti di formazione marxista. Il risultato lo vediamo oggi: per i nostri giornalisti il giornalismo è uno strumento per cambiare la natura della realtà, non un modo per raccontarla. Perciò lo ripeto: il complesso post-coloniale è uno dei motivi del vile collasso dell’Irlanda nell’oscenità.
E in tutto questo quale è stato e qual è il ruolo della Chiesa cattolica? Sul fronte del referendum, a parte un paio di vescovi, non è apparsa molto attiva.
In Italia e altrove siete stupiti del basso profilo della Chiesa in questa circostanza, ma credo che non abbiate chiara una cosa: in Irlanda la Chiesa cattolica è screditata, ha perso la sua autorevolezza. Il movimento pro-life ha fatto di tutto per non essere associato alla Chiesa cattolica nel corso della campagna referendaria per non essere accomunato nel discredito, ha ribadito in ogni occasione che non era in discussione una questione confessionale o religiosa, ma una questione di diritti umani. Fra i vescovi ce ne sono stati un paio che si sono battuti bene e in modo intelligente, altri tre-quattro in modo decente, mentre tutti gli altri sono rimasti silenziosi a parte la lettera della Conferenza episcopale. Sapete che un’associazione di sacerdoti che rappresenta circa un quarto dei preti irlandesi ha emesso una dichiarazione molto equivoca che alla fine voleva dire: anche un cattolico può votare per il Sì. Non c’è da meravigliarsi che anche una parte di cattolici praticanti abbia votato per il Sì, perché sono vittima della propaganda come tutti gli altri. A Limerick in occasione di una Messa il celebrante mi ha dato la parola dopo l’Eucarestia per parlare del referendum: a quel punto un certo numero di persone si è alzato dai banchi ed è uscito dalla chiesa.
Ma la Chiesa è colpevole di questa situazione, o è vittima di un cambiamento epocale più grande di lei?
Tutte e due le cose. Oggi in Irlanda è difficile una discussione onesta ed equilibrata sulla Chiesa cattolica, il dibattito si fa subito emotivamente ed ideologicamente carico. Dal tempo della grande carestia del 1845 fino all’indipendenza nel 1922 la Chiesa è stata il governo morale dell’Irlanda; dai giorni della carestia fino a qualche decennio fa è stata anche il governo materiale del paese, si è assunta compiti sociali e amministrativi di cui il governo di Londra non si faceva carico e di cui il governo secolare irlandese all’indomani dell’indipendenza non era in grado di farsi carico. Se gli irlandesi hanno avuto accesso a scuola e servizi sanitari, per molti anni l’hanno avuto grazie alla Chiesa cattolica. Che si è trovata a svolgere un ruolo spirituale e sociologico contemporaneamente; per esempio ha gestito in prima persona il fenomeno delle nascite illegittime, fuori dal matrimonio, attraverso l’istituzione di orfanotrofi e case per le ragazze madri. Facendo tutto questo, il nostro cattolicesimo ha assunto tratti oppressivi: nelle Margaret Laundries le ragazze madri ed ex prostitute erano trattate come peccatrici da punire e riabilitare con severità, nelle scuole si praticavano punizioni corporali sugli studenti, e così via. A partire dagli anni Sessanta la Chiesa ha cominciato a pagare il conto di tutto questo. Quello che di buono ha fatto è stato già dimenticato, e in primo piano sono rimaste solo le cose vergognose, senza nessuna contestualizzazione storica.
E la politica invece? Che ruolo ha avuto in quello che è sotto i nostri occhi?
I nostri leader politici non guidano nulla, seguono la corrente. Fingono di guidare il cambiamento. L’unico vero cambiamento è che l’Irlanda non ha più leader politici da quando siamo diventati un paese dipendente dall’Unione Europea e dalle multinazionali americane e tedesche. I nostri politici sono diventati fattorini (“messenger boys”), yes men, strumenti di poteri esterni all’Irlanda. Seguono le istruzioni dei loro padroni, sono strutturalmente incapaci di essere delle guide. E d’altra parte non esiste più un’economia irlandese, esiste un costrutto economico determinato dalle multinazionali americane e tedesche, mentre l’autentica economia nazionale è minuscola e fallimentare. Viviamo di mezzi altrui, di luce riflessa: un irlandese su 5 lavora per una multinazionale, un quarto del prodotto interno lordo irlandese è rappresentato da investimenti diretti stranieri. L’economia irlandese è straordinariamente dipendente dall’esterno, senza gli investimenti dall’estero non esisteremmo. Questo ha un’enorme influenza sulla politica e sul governo, che fa tutto quello che serve per rendere sempre più profonda questa dipendenza. Del resto la decisione di aprire l’Irlanda agli investimenti stranieri offrendo regimi di tassazione ridicoli risale agli anni Settanta, i semi della situazione attuale sono stati gettati allora.
Però a guardare i risultati del referendum sull’aborto e il tasso di approvazione della partecipazione dell’Irlanda all’Unione Europea (88 per cento delle opinioni) si direbbe che questa condizione di dipendenza è abbracciata con entusiasmo. Per la semplice ragione che, nonostante la crisi del 2008, ha portato un benessere materiale senza precedenti, che è tornato a crescere dopo quel momento di crisi.
È verissimo, il benessere spinge la gente ad accettare la condizione di schiavi in cui si ritrovano, mentre è la povertà che spinge a ribellarsi. Però c’è un’altra cosa da dire: la mancanza di insicurezza sta generando un sacco di forze imprevedibili nel mondo. La prosperità ha fatto diventare la gente più ansiosa, più incerta della propria identità. Sappiamo tutti del boom degli psicofarmaci nei paesi ricchi. Andare contro la natura dell’essere umano e contro la natura del creato scatena forze distruttive che cominciano a manifestarsi.
Per concludere, come possiamo descrivere le caratteristiche dell’uomo e della donna irlandesi di oggi, prodotto della mutazione antropologica che ha portato una società ostile per i due terzi all’aborto legale a diventare favorevole allo stesso per i due terzi nel giro di 35 anni?
La mutazione è in pieno corso, è ininterrotta, la subiamo anche mentre dormiamo. L’irlandese di oggi è egoista, stupido, indifferente a tutto, incline alla banalità, usa parole come compassione e dignità per nascondere il fatto che non sa cosa siano veramente compassione e dignità, è cieco di fronte alle vere ingiustizie e combattivo nei confronti di quelle immaginarie, è autocelebrativo nel compiacersi di quanto è diventato aperto e progressista. In Irlanda ci sono ancora tante brave persone, ma le stiamo perdendo a poco a poco perché sono per lo più anziani, che vengono sostituiti da giovani generazioni nelle quali è stata estirpata la coscienza. L’Irlanda è diventata schiava dei suoi appetiti materiali: sbronze, mangiate, avventure sessuali, soldi da spendere in divertimenti volgari. Siamo coccolati dallo Stato e dalla cultura dominante, siamo coccolati a morte. La morte dell’anima.

@RodolfoCasadei


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