La miglior critica alla follia gender l’ha scritta un omosessuale

Esce "La Pazzia delle Folle. Gender, Razza e Identità" di Douglas Murray, un libro estremamente urgente in Italia in queste settimane
libro murray

Capita di rado leggere il libro giusto al momento giusto. Questo libro segna uno spartiacque, e per molti versi è scomodamente profetico. Quando, alcuni mesi fa, lessi l’appena edito The Madness of Crowds. Gender, Race and Identity di Douglas Murray – da pochi giorni in edizione italiana La Pazzia delle Folle. Gender, Razza e Identità (Neri Pozza) – ne avvertii immediatamente l’importanza. Non si tratta di un libro “urlato”, come non lo fu il suo ottimo La strana morte dell’Europa (2018). È, invece, un libro estremamente urgente, ed è provvidenziale che sia uscito in Italia in queste settimane. Ne caldeggio dunque la lettura senza perdere tempo – che si sia donna, uomo o trans, eterosessuali o omosessuali, neri o bianchi, conservatori o progressisti -, in anni in cui “la folla ha completamente perso la bussola”, grazie alla morale falsamente neutra dei social media e di Hollywood e al filtro ottundente della “giustizia sociale”, della “politica identitaria di gruppo”, dell’”intersezionalismo” – ossia «lo sforzo più audace e completo, che sia stato tentato, dopo la guerra fredda, di creare una nuova ideologia», che, in vero, è sempre più una sorta di nuova “metafisica”, provvista di una retorica che «esaspera le divisioni esistenti”, creandone di nuove e amplificando rivendicazioni, diffidenza, risentimento e sfiducia sociali.

Se non fosse che i fatti incalzano sempre più, questo libro potrebbe essere un utile pamphlet filosofico sul buon ragionare in tempi ardui o, meglio, sulla possibilità stessa di ragionare quando un’ideologia pervasiva, qualunque essa sia, inizia a dominare l’arena del pensiero, erodendolo e degradandolo. Murray, un conservatore libertario – per malamente inquadrarlo -, invece ci obbliga a riconsiderare il reale.

Tra i fatti incalzanti e agghiaccianti, che rendono “folli”, vi è, per esempio, la storia del brillante milionario gay Peter Thiel (fondatore di Paypal, legato sia a Elon Musk sia a FB), conservatore e sostenitore di Donald Trump, per questo definito dalla stampa progressista «un uomo che fa sì sesso con altri uomini, ma che assolutamente non è gay»; la scrittrice pluripremiata che sostiene a più riprese che «tutti gli uomini sono rifiuti umani», oppure la editorialista che scrive «a morte tutti gli uomini», senza che nemmeno lontanamente costoro pensino di essere loro stesse violentemente sessiste; la giornalista del New York Times Sarah Jeong che ha continuato a tweettare amenità quali «eliminiamo i bianchi» o «cavolo, mi fa quasi impazzire quanto mi diverte essere cattiva con i bianchi anziani»; la dolorosissima e angosciosa vicenda che ha piagato e spezzato la vita del giovane Nathan Verhelst – nata Nancy e odiata dalla madre, sottopostasi poi a terapia ormonale con avallo medico e psichiatrico, poi operata tre volte per cambiare sesso e, infine, sempre con avallo medico e “a fin di bene”, “compassionevolmente” – soppresso nel 2013; la storia travagliata del giovanissimo James tra scelte impervie e sofferte, e le perfettamente legali pratiche medicali perpetrate a Los Angeles – ma non solo – dalla più che inquietante dottoressa Johanna Olson-Kennedy a decine e decine di bambine e bambini dagli otto ai tredici anni in su per far cambiare loro sesso in giovanissima età tra ormoni e chirurgia irreversibile.

Permettetemi ora una digressione rispetto al libro, apparentemente remota. Chiunque abbia contezza della storia dell’antisemitismo sa perfettamente che l’odio antisemita è anzitutto una costruzione intellettuale elaborata, partorita da cervelli fini – anche quando ossessionati o rapaci -, che si è alimentata, prosperando, prima in ambito teologico (sia cristiano sia, successivamente, islamico, tra continuità e distanze), poi in ambito filosofico e politico nelle moderne università. Il falso mantra che la “conoscenza” ci renda “migliori” – o, per dirla diversamente, meno “a rischio” di orrori – è clamorosamente smentito dai fatti, prima ancora che dalle eterogenee interpretazioni degli stessi: fu la “cultura” a creare l’antisemitismo, non contadini vessati, affamati e ignoranti, non i gaudenti nei bordelli o nelle osterie, e nemmeno la piccola delinquenza.

Questo non significa assolutamente celebrare l’ignoranza a discapito del sapere, oppure sostenere che viziosi e delinquenti (ed è arduo trovare essere umano, chi più chi meno, che almeno un po’ non rientri – o sia talora rientrato – in almeno una delle due categorie) non possano essere antisemiti. E nemmeno significa assolvere il “popolo minuto”, che divenne anche lui un pessimo attore in questa orrida storia (come in altre devastazioni), quanto piuttosto ricordarci che vi è una immensa (e reiterata) responsabilità intellettuale, che ha prosperato (e in diversi subdoli modi ancora prospera) nell’accademia, a cominciare da quell’università germanica che, da dopo Lutero sino agli inizi del XX secolo, è stata l’indiscusso (e potente) modello del pensiero umanistico occidentale, con molte innegabili luci e con devastanti tenebre. Il tanto vituperato papa Alessandro VI Borgia o il buon suo sifilitico successore Giulio II, del pari di altri pontefici rinascimentali, erano uomini intemperanti e stracolmi di vizi (il che non fa che rendermeli in qualche modo simpatici), ma non più crudeli – e certamente meno pericolosi – dei vari Paolo IV, Pio V o Martin Lutero e così via: questi ultimi, difatti, erano, non solo spesso inconsapevoli di essere a loro volta dei mostri, ma armati fino ai denti perché mossi dallo zelo di pugnare per una presunta giusta causa (la loro), ossia di detenere e operare il bene. Non è un caso che, e non di rado, la situazione degli ebrei sia stata meno nefasta con personaggi quali certi papi medievali o della Rinascenza di dubbia morale, taluni re libertini o certi califfi e sultani, seppur sempre a rischio, piuttosto che con i moralisti virtuosi – araldi di morali religiose oppure laiche -: con un delinquente, per quanto disagevole, si può patteggiare e capirsi, con un delinquente convinto di essere buono e nel giusto – o costretto a recitare quella parte – è impossibile. Si tratta di amare e scomode porzioni di verità, che i moralisti disdegnano.

Parte significativa della progressiva barbarie che sta affliggendo oggi la vita politica delle società occidentali, certamente perfettibili, è legata alla dottrina sociologico-politica dell’intersezionalità, di giorno in giorno più dogmatica, aggressiva e al suo interno contraddittoria. Anch’essa è un prodotto intellettuale, un “regalo” delle università, di chiara ispirazione marxista, con dunque tutta la sua carica seducentemente sovversiva e la sua pretesa ed esibita morale para-messianica. Il libro di Murray rende conto dall’interno di quanto stia succedendo e del progressivo esasperarsi del problema, con gran dovizia di fatti concreti, spesso tragici e crudeli o che lasciano frastornati. È bene sapere di che si tratta, dato siamo sempre più bombardati da accuse di razzismo, xenofobia, sessismo, omofobia, transfobia. Ma anche, e spesso a sproposito e con abusi, di fascismo e di antisemitismo. Ora, in alcuni ambienti, anche di islamofobia.

In estrema sintesi, l’idea soggiacente a questo immenso e terrificante minestrone è che vi sia un’unica radice – con varie sovrapponibili modalità di estrinsecazione dell’odio – delle diverse discriminazioni e dominazioni. Che si tratti di un’ideologia grossolana e incoerente, benché oggi assurta a indiscusso dogma – in forma soft, come in Italia sinora, o in forma radicale, come altrove -, è palese dal fatto che spesso tra questi diversi gruppi di vittime di discriminazioni c’è tensione, se non talora persino nette opposizioni. Che, ad esempio, non renda conto dell’antisemitismo è evidente, dato che il vero focus, in questo caso, non è, se non per occasionali tangenze, il razzismo o la xenofobia, bensì l’odio per il fratello, per il simile, per la radice, per l’uguale, per l’alterità interna – e non quella esterna -: è un “mistero” di cui rende bene conto la Bibbia nell’odio di Esaù per il “gemello”, non per il diverso o lo straniero. E non è affatto un caso che negli ambienti universitari e politici (tutti progressisti) ove questa teoria descrittiva (e – ancor più – con pretese ferocemente prescrittive) del reale impera e dilaga, essa si nutra e diffonda ora antisemitismo (Murray, p.372), con argomentazioni – e qui sta l’ulteriore paradosso – razziste: «Gli ebrei sono bianchi? …la fine del privilegio bianco inizia ponendo fine al privilegio ebraico (questo nell’anno 2016/2017 nell’Università dell’Illinois)».

Siamo molto distanti dalle sacrosante rivendicazioni di Martin Luther King, che coraggiosamente lottò tanto contro il potere bianco quanto contro quello nero; prospettiva che non poteva essergli in alcun modo perdonata dai devoti dell’intersezionalità. Non è affatto un caso che nel pur interessante (e, in alcune parti del percorso museale, notevole) National Museum of African American History and Culture (ove comunque una visita è doverosa) a Washington lo spazio dedicato al reverendo King sia meno che infinitesimale, dato che non accarezzava, nemmeno come correttivo al detestabile e omicida razzismo bianco, il black power, ma auspicava piuttosto «il potere di Dio e il potere dell’essere umano».

«I sostenitori della giustizia sociale, della politica identitaria e dell’intersezionalità – scrive Murray – vogliono farci credere che viviamo in una società razzista, sessista, omofoba e transfobica. Insinuano che queste oppressioni siano interconnesse e che se riusciamo a vedere com’è fatta questa ragnatela, e a disfarla, potremo infine disinnescare le oppressioni della nostra epoca. …. È improbabile che un giorno lo scopriremo mai. Innanzitutto, perché le oppressioni interconnesse non sono tra loro collegate in bell’ordine, ma hanno un tremendo attrito tra loro e al loro interno, facendo un gran baccano. Accentuano il logorio, anziché attenuarlo, e aumentano le tensioni e la pazzia della folla più di quanto non producano serenità». Continua l’autore, evidenziando che sollevare certe questioni in tale modo è divenuto una modalità nuova e distorta «non solo per mostrare compassione, ma per l’esibizione di una nuova moralità. È il modo con cui si pratica questa nuova religione». Tale sfoggio di “virtù” richiede strumentalmente che si esasperi ed esageri ogni questione e a ogni costo, per perversamente amplificarla. Douglas Murray argomenta con attenta perizia tutto questo: omosessuale e non credente, in questo suo attualissimo e urgente saggio recupera mirabilmente e laicamente il valore – di matrice biblica, ebraica e cristiana – del perdono, anche in una dimensione politica e intergenerazionale, forse con maggiore nitore e onestà di molto ciarpame melenso che dilaga invece da parte “credente”.

Ha perfettamente ragione Murray quando sintetizza che «se l’uguaglianza razziale, i diritti delle minoranze (come nel caso di gay, lesbiche e trans, ma anche neri, ebrei etc. etc.) e quelli delle donne sono i migliori prodotti del liberalismo (e solo del liberalismo e solo in Occidente), come fondamenta sono a dir poco destabilizzanti. Tentare di elevarli a cardine è come rovesciare uno sgabello da bar e poi provare a starci sopra in equilibrio. I prodotti del sistema non possono riprodurre la stabilità del sistema che li ha prodotti; se non altro perché ciascuna di queste problematiche è di per sé una componente estremamente instabile». Il problema qui, infatti, non sono in alcun modo questi benedetti diritti appena ricordati – dopo, occorre sempre tenerlo a mente imparandone le lezioni, secoli di persecuzioni, odio, dileggio, sofferenze, talora ancora in atto oggi nelle nostre stesse società (e talora purtroppo, più o meno intensamente, persino in seno alle nostre rispettive comunità religiose o famiglie), che tuttavia però sono le uniche ad aver fattivamente cercato di smascherare e arginare furie persecutorie, aguzzini e sadici, e che tutt’ora restano una sparuta minoranza nel mondo! -, bensì un’ideologia furiosa con il “reale”, quest’ultimo sacrificabile e odiato in nome di un’”idea”.

Viene da chiedersi se il mondo occidentale, cresciuto e divenuto prospero anche per innegabili e positivissime conquiste legate proprio al paradigma contrattualista-liberale, nell’estendere senza riserva il paradigma del “libero consenso” – della libera scelta – a ogni ambito della vita, non sia più in grado di capire e dunque di tollerare – rifiutandolo – tutto ciò che si sottrae all’arbitrio, risultando “indisponibile” (o, in qualche modo, “trascendente”): genitori e figli, universo linguistico-simbolico in cui si nasce; se, quando e come nascere; come e quando morire; che corpo avere. Peccato che si tratti dei più profondi “dati” esistenziali che permettono a una persona di essere e di definirsi – o di ripensarsi -, e che ciascuno di essi presupponga non solipsismo assolutista ma relazione. Sono domande più che angosciose… Constatiamo però che siamo in preda a ubique pulsioni di morte, non solo per quanto riguarda gli odiatori – verso cui bisogna essere sempre molto vigili -, ma nei riguardi di tutti quegli ambiti essenziali e intimi della nostra esistenza, vitali per il sano mantenimento in essere di qualsivoglia società.

Viene da chiedersi se le incomprensioni, le derive, le ideologie paradossali e le pulsioni di morte tradottesi in normativa – talora anche tremenda e applicata a minori -, di cui questo libro rende ampiamente conto, non siano correlative rispetto alla connivenza e alla resa di quella stesse aree politiche e culturali all’Islam politico dilagante in Occidente, anche con investimenti milionari e con “gestione” dei drammatici fenomeni migratori e demografici. Se, rispetto alle prime, la tentazione è di dire “guarda e passa”, rispetto ai secondi (l’Islam politico) non si può che “ammirare” calcoli, paziente attesa e intelligenza strategica. Purtroppo, l’arroganza dei primi farà sì che, come già stiamo vedendo, assieme a trascinare con sé tutto il resto e ogni altra persona e retaggio culturale, si consegneranno fatalmente al loro carnefice (i secondi), che non sarà tenero, come già dichiara in maniera peraltro cristallina e senza troppi infingimenti. E, d’altronde, perché mai dovrebbe? E, ancora, appare chiaro a chi scrive che le più retrive forze – forse anche di frange dell’ebraismo e del cristianesimo – messe alle strette tra queste derive deliranti e l’Islam politico, sceglieranno giocoforza, anche se a carissimo prezzo, l’Islam politico, che dimostra astuzia, non accontentandosi dell’istante ma approntando strategie efficaci nel futuro. Questo, purtroppo, a totale detrimento della cultura dei diritti, che, se rettamente intesa, come ricorda Murray, è una delle migliori e più straordinarie conquiste della nostra travagliata storia occidentale (o un suo frutto compiuto), “secondaria” – come afferma Remy Brague – rispetto ad Atene e Gerusalemme, sempre più incomprese, delegittimate e vituperate. C’è di che rabbrividire, tutti, che si appartenga o meno a una – o talora anche più di una – delle varie minoranze (in quest’ultimo caso, ovviamente, c’è ancora più da temere, perché assediati da troppi mostri).

Forse è vero e prolettico un antico detto latino, che non è peregrino qui ricordare: quos deus perdere vult prius dementat.

Foto Ansa

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