Se dovessi spiegare a mio figlio che cos’è la libertà, credo farei fatica. Per prima cosa, per aiutarmi, cercherei di andare col pensiero a un uomo libero, e di raccontarglielo.
E allora ecco mi viene in mente un sacerdote missionario, conosciuto in Amazzonia quattordici anni fa. Era veneto, originario, mi pare, di una famiglia di artigiani di Treviso, gente benestante, con un’azienda che funzionava bene. Lui, però, aveva mollato tutto, e se ne era andato dal capo opposto del mondo, ad evangelizzare le tribù degli Indios massacrate dai bianchi insieme alla loro foresta. Padre Giorgio si occupava di tre o quattro missioni diverse, fra loro distantissime, che raggiungeva con una vecchia jeep disastrata, a bordo null’altro che un’amaca per dormire, dell’acqua e delle gallette. Quella zona dell’Amazzonia era desertica e pericolosa: bande di uomini armati, strade di polvere, ponti di assi su fiumi minacciosi. Ad ogni ponte quel prete scendeva dal vecchio catorcio di jeep, percorreva le assi a piedi, risaliva a bordo dicendo: «Se Dio vuole, ci passiamo». E io, milanese abituata a ogni garanzia, lo guardavo attonita: «Come sarebbe, se Dio vuole? Il ponte tiene o no?». I ponti tenevano.
Quel prete aveva mille cose da fare, malati cui portare soccorso, medicinali da recapitare, ma non sembrava mai in ansia, pur non perdendo mai tempo. Né si disperava, come a me sarebbe parso naturale, per la miseria in cui giacevano le tribù. Faceva il suo, andava avanti, dormiva bene nella sua amaca; rideva spesso, anche. Fiducioso e lieto, dentro il disegno di un altro. E libero dunque, forse l’uomo più libero che abbia mai conosciuto.
Lo osservavo senza capire, stupita. Quasi lo spiavo, mentre lo confrontavo con i miti della mia finita adolescenza e giovinezza. Libertà, per me e per molti della mia generazione era la più rigogliosa espansione dell’individualismo, la più narcisistica affermazione dell’Io. Mitigata, tutt’al più, da un educato tentativo di non calpestare troppo il prossimo. E dunque, libertà era autorealizzazione, era l’Io a vele sciolte; anche se, passata l’ebbrezza dei vent’anni, sempre più ad ogni conquista, ad ogni vittoria pareva di sentire l’eco di quella poesia di Montale studiata al liceo: «…Non è per questo». Come un’incrinatura minima in quella libertà splendente, il primo retrogusto dell’insoddisfazione.
La libertà adulatrice dell’Io, dunque il disporre di sé pieno, o la libertà di quel prete sperduto nelle foreste del Sudamerica, strana e così del tutto altra?
SUL CALVARIO, DIETRO UN CESPUGLIO
La domanda di tutti in fondo, la domanda di sempre, ad ogni sorgere del sole infatti si ripete «sia fatta la tua volontà», perché istintivamente tenacemente cerchiamo la nostra.
Barabba, di Par Lagerkvist, è proprio la storia di tutti, attraverso il dramma di colui che fu liberato al posto di Cristo. Barabba, ladro e torturatore e assassino, aveva usato di ogni umana libertà, della sua libertà s’era ubriacato come, ci racconta Lagerkvist, si ubriacava ogni sera fra bagordi di ogni tipo. Violenza, vendette, sangue, stragi. Barabba, ha scritto Giovanni Papini, è l’umanità, tutta intera. Barabba, che liberato segue la Via Crucis, attento però a non avvicinarsi troppo, perché i soldati romani non facciano raccogliere a lui la croce, quando Cristo stramazza.
è libero ormai, potrebbe andarsene. E tuttavia rimane, trascinato quasi contro se stesso da una strana attrazione dietro al corteo, sul Calvario. Resta, e fino all’ultimo. Lontano e muto. Non capendo chi è esattamente il condannato, ma intimamente sicuro che è innocente. Augurandosi che muoia, che finisca lo strazio della sua agonia. E all’alba della Pasqua, Barabba è acquattato dietro a un cespuglio, vicino al sepolcro. «Che il morto non sarebbe resuscitato dalla tomba ben lo sapeva, ma aveva voluto vedere con i suoi occhi, per esserne proprio certo (…). Certo era un po’ meravigliato di aver voluto far questo e di trovarsi in quel luogo. Perché poi si prendeva tanto a cuore questa faccenda? Che cosa gliene importava, in fin dei conti?». Gliene importava, in verità, maledettamente. Che quell’uomo fosse tornato dalla morte. Che fosse vera la salvezza che prometteva. Anche per uno come lui, perfino incredulo quando lo avevano graziato dal supplizio, tanto nell’affermare se stesso era andato lontano, nella ferocia. Quasi stanco, e come saziato e sfinito dal male, fino a non parere più quello di prima, il capo sanguinario di cui tutti avevano avuto timore. Da quel giorno sul Golgota, muto invece, lontano – un altro uomo.
Barabba cerca di convertirsi. Ma davanti al procuratore romano rinnega. E non pare vigliaccheria, ma l’ammissione di una dolorosa estrema verità: «Ho desiderato di credere», dice infatti. Lo ha desiderato, ma non è bastato un desiderio che non si è fatta pure, disarmata domanda.
A CHE VALE LA VITA?
è profondamente e dolorosamente moderno quell’«ho desiderato di credere» del Barabba di Lagerkvist, quasi l’ammissione di un’impotenza all’«inchinarsi all’infinitamente grande» che per Dostoevskij è la legge stessa dell’umanità. Per Anna Vercors, nell’Annunzio a Maria di Claudel, tutto era ancora limpido: «Che vale la vita se non per essere data? E perchè tormentarsi, quando è così semplice obbedire?». Cinquant’anni dopo, Lagerkvist in quelle parole tormentate di Barabba descrive lo smarrimento dell’uomo del Novecento, che non è più naturalmente capace di riconoscere Dio come un’evidenza. Il romanzo è del 1950, il Nobel del 1951. Ha scritto Papini: «Barabba cerca di sapere, cerca di informarsi, cerca di vedere… è incuriosito e turbato, ma non sarà mai convertito». Tuttavia ostinato a seguire il martirio, e poi sul Golgota, e silenzioso a verificare se è risorto, o no. Strenuamente intento a trattare la realtà con l’unica categoria possibile di una ragione positivistica, che scompone e misura ogni cosa, e a non arrendersi. Intento a mantenere il possesso della ‘propria’ libertà. A non riconoscere alcun disegno al di fuori del proprio – tanto meno un disegno buono. Solo nell’ultimo istante Barabba si arrende, anche lui, infine, sulla croce. Quando viene la morte, di cui ha sempre avuto tanta paura, nel buio dice: «A te raccomando l’anima mia». «Pur non riuscendo a credere – scrive Giussani – ma come disperato gesto di lealtà grida la sua nostalgia di un’affermazione ultima e positiva». Come un bambino che, pur non capendo, ripete ciò che dice il padre. Che vuole dire affidarsi. Che vuole dire, magari all’ultimo secondo, essere liberi. Come quel prete laggiù in Amazzonia, tanti anni fa, che aveva tanto da fare, ma mai fretta, e passava sui ponti di legno, «Se Dio vuole». E sembrava felice, e per questo m’aveva meravigliata.