La colletta dei carcerati per i rifugiati ucraini: «Rispondere al male col bene»

Di Matteo Rigamonti
04 Aprile 2022
I detenuti di Opera hanno raccolto 1.683 chili di cibo a sostegno di chi scappa dalla guerra. Parlano Boldrin e Romano di Incontro e presenza

I detenuti del carcere di Opera hanno colpito ancora. Dopo la raccolta da oltre 600 chili di cibo donati alle famiglie in difficoltà per l’emergenza Coronavirus del maggio di due anni fa, hanno promosso un’altra speciale colletta alimentare, questa volta per aiutare i profughi dell’Ucraina. Sempre all’interno della casa di reclusione che si trova a Sud di Milano sono stati così raccolti ulteriori 1.683 chili di pasta, riso, tonno, pelati e altri generi alimentari che, grazie al Banco alimentare, finiranno nelle mani delle famiglie ucraine che in Lombardia hanno aperto le porte ai loro familiari e connazionali in fuga dalla guerra.

L’aspetto forse più sorprendente di questa gratuita catena di bene innescata da chi in vita ha compiuto del male, a sostegno di chi dal male, quello della guerra, sta scappando – e che grazie ad Avvenire ha raggiunto le pagine della cronaca nazionale –, è che «a muoversi sono stati loro», i carcerati in prima persona, come spiega a Tempi Guido Boldrin dell’associazione Incontro e presenza che da 36 anni è impegnata con i suoi volontari a incontrare i detenuti delle carceri milanesi in occasione delle visite di cui possono godere nell’ambito di ciò che è loro concesso, all’interno del regime di detenzione e dunque privazione di libertà cui sono soggetti per i reati che hanno compiuto.

Immedesimazione con la sofferenza

L’annuale giornata della Colletta alimentare promossa dal Banco ogni ultimo sabato di novembre «è una proposta che ogni anno noi volontari già rivolgiamo ai detenuti delle tre carceri milanesi da almeno una decina d’anni», racconta Boldrin, «ma questa volta sono stati loro a chiedere alla direzione di poter fare qualcosa». Del resto, osserva il referente dei volontari di Incontro e presenza per Opera, «le notizie arrivano anche qui dentro». E come gli ha detto uno dei detenuti, parole che a memoria riferisce: «Chi più di noi può comprendere la sofferenza e la condizione di chi è costretto a fuggire?». Commenta stupito Boldrin: «Si sono immedesimati con la sofferenza dei profughi ucraini»; a conferma di quella che, per i volontari di Incontro e presenza, è una certezza frutto di decenni di esperienza e rapporto con chi ha rubato, ucciso o messo in atto altre forme di violenza: «Anche nel cuore di ha commesso gli errori più gravi resta intatto il desiderio di felicità e redenzione. Proprio come capita a tutti noi con gli errori di ogni giorno».

La direzione del carcere, con la collaborazione attiva della Polizia penitenziaria, ha valorizzato quest’impeto di bene, processato le relative pratiche burocratiche e così reso possibile un gesto che ha coinvolto due reparti di media sicurezza (chi si trova in regime di 41 bis non può partecipare e un altro era inaccessibile per misure di prevenzione Covid) per un totale di circa cinquecento persone, per metà italiani e metà di altre nazionalità, molti dei quali senza famiglia né sostegno economico. «Ho solo questo, mi spiace», si è sentito ripetere in più d’una cella da parte di chi, rinunciando a una scatoletta di carne o legumi, ha voluto comunque donare qualcosa ai volontari che sono passati davanti alle sbarre con le ceste. L’ultima occasione per farlo dopo che già altri, prima di loro, avevano compilato un modulo per destinare, all’interno degli ordini di alimenti cosiddetti “sopravvitto”, qualche bene alla colletta straordinaria, pagandoli di tasca propria, quale che fosse la liquidità a disposizione sul conto.

Aiutare in qualcosa di semplice

«Questi detenuti hanno imparato qualcosa», osserva Fabio Romano, presidente di Incontro e presenza, mettendo in connessione la raccolta promossa durante il lockdown con quest’ultima: «Accettando per anni di partecipare alla Colletta alimentare hanno fatto proprio un gesto che risponde a un bisogno e imparato un metodo che si tramanda di anno in anno, di persona in persona». Quale metodo? Rispondere al bisogno dell’altro, aiutandolo in qualcosa di semplice, per riscoprire la natura profonda del proprio bisogno ultimo.

In carcere, infatti, prosegue Romano, non è raro che le persone che si incontrano «sentano riemergere quel bisogno di senso che spesso non sono riuscite a vivere adeguatamente al di fuori», e che si traduce anche nel «bisogno di sentirsi utili, di non essere abbandonati, un bisogno che li rende sensibili e partecipi a chi sperimenta difficoltà nella vita». Una dinamica umana che, per inciso, forse può aiutare a comprendere meglio anche il valore educativo delle (poche) opportunità di lavoro che si hanno in carcere.

Il metodo testimoniato da Boldrin e Romano, e in qualche misura fatto proprio dai carcerati di Opera, è quello che Incontro e presenza ha a sua volta mutuato dalla Chiesa, in particolare dal carisma di don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e liberazione, che conquistò la fondatrice di questa associazione, Mirella Bocchini, che aveva incontrato il sacerdote brianzolo da studentessa del Berchet, con un retroterra culturale laicista e simpatizzante radicale, quando ancora non sapeva che, da consigliere comunale a Milano, si sarebbe poi molto impegnata per i detenuti delle carceri milanesi, partendo da San Vittore, e fino ad arrivare a quella che poi sarebbe divenuta Incontro e presenza, che oggi opera oltre che nelle tre carceri milanesi (la terza è Bollate) anche a Bergamo.

Così come possono

«Il metodo della nostra associazione nasce da questa appartenenza alla Chiesa attraverso il Movimento”, conferma Boldrin riflettendo sui frutti generati tra i detenuti da parte di quella che, per i volontari, è una «caritativa», ossia un «gesto», spiega, «della tradizione cristiana attraverso il quale ci viene proposto di immedesimarci con Cristo che è carità, compiendo l’opera di misericordia che è visitare i carcerati». E che da più di trent’anni si ripete ogni sabato mattina quando le porte del carcere si aprono alle visite. «La peculiarità della nostra associazione, rispetto alle tante che quotidianamente collaborano con le carceri, risiede nel fatto che noi andiamo lì soltanto per incontrare i detenuti», sottolinea Romano: «Non portiamo niente. “Essere presenza per te” è lo spirito con cui ogni volontario si reca a incontrare il singolo detenuto, che è una presenza per lui. E dal carcere nessuno di noi esce come prima, ne esce cambiato». Forse qualcosa di simile è scattato anche nell’animo del manipolo di galeotti che ha proposto la colletta straordinaria per l’Ucraina.

C’è un altro aspetto di tutta questa vicenda che aiuta a comprendere il valore tanto del gesto dei carcerati di Opera, senza rischiare di enfatizzarlo oltremodo, quanto la bontà della presenza di un’associazione di volontari come Incontro e presenza. «Ci siamo sempre domandati se proporre o meno la Colletta alimentare anche in carcere», confida Romano, perché «qui ci troviamo in un luogo di sofferenza e privazione e dove una certa discrezione è evidentemente richiesta», ricorda. Tuttavia, «non fare una simile proposta alla libertà di questi detenuti avrebbe significato venir meno alla loro dignità, a quell’esigenza di bene, bello e giusto che pure alberga anche nel cuore di chi ha commesso il male», al loro «desiderio di essere presi sul serio».

Proprio come sul serio vengono presi dai volontari ogni sabato mattina almeno per il tempo, condiviso, di una visita. «Così come possono, con quello che sono», conclude Romano. E così come hanno fatto a loro volta i detenuti di Opera con gli sconosciuti e lontani, eppur mai così vicini, fratelli ucraini.

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