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Jihad in casa nostra. Come acchiappare il “lupo solitario”

«Controllare tutti i potenziali terroristi? Praticamente impossibile». Gli esperti di intelligence raccontano l'enorme sforzo che serve per «fare la guerra a un'idea»

Leone Grotti
04/07/2016 - 3:00
Interni
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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Omar Mateen, 29 anni, è entrato il 12 giugno alle 2 di notte nel club gay Pulse di Orlando, Florida, e ha cominciato a sparare con un fucile semi-automatico e una pistola. Durante la strage, il più grave “mass shooting” della storia degli Stati Uniti, ha chiamato il 911 e ha giurato fedeltà allo Stato islamico. Tre ore dopo l’inizio della sparatoria, le teste di cuoio hanno fatto irruzione nel locale uccidendo il terrorista, che si è lasciato alle spalle 49 vittime e 53 feriti. Mateen era nato a New York da immigrati afghani, ha frequentato scuole e college americani, lavorava come guardia giurata, viveva in una bella casa, andava in moschea quattro volte a settimana ed era sposato con un figlio dopo un precedente divorzio. La sua famiglia è stata descritta come la «classica famiglia americana». Omar Mateen, però, era anche inserito nella lista dei potenziali terroristi. Gli agenti dell’Fbi l’avevano interrogato tre volte e tra il 2013 e il 2014 era stato sorvegliato per dieci mesi.

La domanda sorge spontanea: se l’intelligence sapeva che era un soggetto pericoloso, perché non lo controllava?

Il giorno dopo la strage di Orlando, Larossi Abballa, francese di 25 anni, è entrato nella casa di due poliziotti vicino a Parigi e li ha massacrati con un coltello da cucina. Rimasto solo in casa con il figlio di tre anni della coppia, ha aperto una chat in live streaming su Facebook dove ha giurato fedeltà all’Isis. Dopo lunghi negoziati, un raid della polizia ha ucciso il terrorista e salvato il bambino. Abballa, ancora più di Mateen, era un volto noto: nel 2013 era stato condannato a tre anni di carcere per associazione a delinquere mirata alla preparazione di atti terroristici. Scontata la sua pena non si era più fatto notare, se non per il tentativo di aprire un fast food e per i video complottisti e antisemiti che pubblicava su Facebook. Ma se aveva un passato comprovato da terrorista, perché non veniva monitorato?

Il lavoro dei servizi di sicurezza
Dall’attentato alla sede di Charlie Hebdo del 7 gennaio 2015 i servizi di sicurezza di tutta Europa, e non solo, sono sotto accusa e non sembrano all’altezza della sfida epocale che gli si presenta davanti. Come si ferma un esercito di potenziali terroristi, che pur rifacendosi alla stessa ideologia jihadista, nella maggior parte dei casi non ha legami con cellule strutturate e decide in modo autonomo quando, come e dove agire?

Tutti invocano «più intelligence», più controlli, più indagini, ma questa risposta è tanto semplice quanto illusoria. «Oggi i servizi di sicurezza devono far fronte a numeri impressionanti e come diceva l’Ira: “A noi basta essere fortunati una sola volta per fare un attentato, la polizia invece deve essere fortunata sempre”», ragiona con Tempi l’esperto di terrorismo del Corriere della Sera Guido Olimpio. I dati del Washington Post sembrano dargli ragione: la lista di sospetti britannica contiene 3 mila nomi, quella francese 11 mila, quella americana 25 mila (o 40 mila, a seconda delle stime). Per controllarli tutti 24/7, il Regno Unito dovrebbe impiegare 60 mila agenti su un totale di 150 mila, la Francia 220 mila, cioè tutte le sue forze di sicurezza, gli Stati Uniti 500 mila su 800 mila.

«Davanti a numeri simili, è evidente che non possono essere controllati tutti», spiega a Tempi l’inviato di guerra ed esperto di politica internazionale Gian Micalessin. «Ogni volta che non si riesce a prevenire un attentato si può parlare di fallimento dell’intelligence, ma bisogna tenere conto anche di questa causa strutturale». Alla quale se ne aggiunge un’altra: «È oggettivamente difficile bloccare attentatori che non sono direttamente collegati allo Stato islamico, ma si auto-innescano e si auto-attivano per motivi molto diversi tra loro».

Una platea variegata
La “platea” di terroristi che compie attentati nel nome dell’Isis è poi «variegata»: «C’è il militante convinto, quello che abbraccia l’ideologia jihadista da sempre – fa notare Olimpio – e poi ci sono elementi contigui al mondo criminale, che solo dopo diventano jihadisti. Magari radicalizzandosi in prigione come in Francia. Molti sono elementi instabili che a partire da problemi personali compiono stragi facendosi scudo con un marchio ideologico. Cosa possono fare polizia e intelligence davanti a casi così diversi?».

La complessità del fenomeno sfugge anche a espressioni come “mancata integrazione”, “radicalizzazione online” o “lupo solitario”. «Spesso queste analisi sono un po’ semplicistiche», afferma dati alla mano Lorenzo Vidino, direttore del programma sull’estremismo della George Washington University, che a Tempi spiega: «Appena c’è un attentato noi cerchiamo la persona su Facebook e Google, troviamo tracce e pensiamo che si siano radicalizzati online. In realtà online e offline vanno quasi sempre insieme. Il lupo è solitario dal punto di vista operativo, ma se prendiamo l’attentatore di Orlando, Mateen, scopriamo che aveva un padre simpatizzante dei talebani, era stato in Arabia Saudita, conosceva una persona che si è fatta saltare in aria in Siria. Molto spesso la radicalizzazione è un fenomeno che riguarda dei gruppi, anche se molto piccoli: tre amici, due fratelli, due cugini».

Se controllare elementi così numerosi e diversi è impossibile per mancanza di risorse umane ed economiche, i paesi europei sono vulnerabili anche per motivi più sostanziali. «È chiaro che c’è un problema di strumenti legali: vogliamo arrestare tutti quelli che hanno simpatie jihadiste?», continua Vidino. «Non possiamo mettere in prigione una persona per un’idea o in base a un sospetto. A meno di abolire lo stato di diritto, ma non è una cosa che mi sentirei di proporre».

Ci sono però dei paesi che, oltre ad aumentare le risorse per l’intelligence, stanno cercando di riempire questo «vuoto legale» definendo «nuovi reati». È il caso dell’Italia, che finora non è stata sconvolta da attentati come i partner europei. I motivi sono diversi: prima di tutto, ricorda Micalessin, «noi non abbiamo un gran numero di immigrati musulmani di seconda e terza generazione, quelli dove si radica l’estremismo, a causa del nostro passato coloniale sui generis». In secondo luogo, spiega Olimpio, «in Italia non ci sono quartieri come Molenbeek, ma centri dove si mescolano immigrati di diversa provenienza. E poi abbiamo un ruolo geografico importante: dal centro dell’Europa attraverso l’Italia si arriva in Nord Africa e in Grecia e da lì in Medio Oriente. Un attentato potrebbe avere ripercussioni sulla libertà di movimento e danneggiare questo centro logistico».

Poiché la maggior parte dei soggetti radicalizzati in Italia sono stranieri, si è rivelato utilissimo anche il sistema delle espulsioni mirate: «Quando non ci sono prove sufficienti per arrestare una persona, ma esistono elementi che ne dimostrano la pericolosità, noi la espelliamo», prosegue il giornalista del Corriere. «Non essendo cittadini italiani, ne abbiamo il diritto. In questo caso le proteste da parte delle associazioni dei diritti umani sono fuori luogo, perché una società deve usare tutti i mezzi legali che ha per difendersi. Non è un abuso».

A rendere più efficace la lotta contro il terrorismo sono anche elementi legati alla nostra storia: «Intelligence e polizia italiane non sono ingenue nei confronti dell’estremismo islamico e hanno maturato esperienza contrastando il terrorismo negli anni Settanta e Ottanta», puntualizza l’inviato di guerra. «Non dobbiamo poi dimenticare che da noi il racket della vendita di armi, esplosivi e passaporti falsi è monopolio di grandi organizzazioni criminali, come la mafia o la camorra. Questo paradossalmente è un vantaggio, perché non hanno interesse ad attirare su di sé l’attenzione dei servizi di sicurezza coinvolgendosi con questi nuovi terroristi».

Norme fortemente repressive
Le qualità «superiori alla media» con cui la nostra intelligence sta lottando contro il fenomeno del terrorismo islamico si uniscono infine a nuovi provvedimenti legislativi. Molti sono stati suggeriti da Stefano Dambruoso, questore della Camera e deputato di Scelta Civica con una ventennale esperienza in materia di terrorismo internazionale grazie alla sua attività di magistrato. «Abbiamo fatto moltissimo in termini di repressione», spiega a Tempi. «Una legge del 2015 ha permesso a polizia e servizi di agire in modo più tempestivo nelle emergenze. Abbiamo creato una procura antiterrorismo con un ufficio di coordinamento unico di tutte le indagini. Questo è un passaggio epocale: la vera cooperazione sul terrorismo infatti si fa a Bruxelles, dove spesso è difficile condividere i dati sensibili. Io mi sono trovato più volte ad andare a parlare per la città di Milano. Ma insieme a me e ai capi unici delle procure antiterrorismo degli altri paesi, c’erano altri miei sei colleghi che parlavano per le loro città italiane. Tutto questo ci rendeva meno forti e meno credibili».

L’anno scorso sono stati anche introdotti nuovi reati nel Codice penale: «Abbiamo anticipato la soglia di punibilità», continua Dambruoso. «Oggi puoi essere arrestato prima ancora di partire per una zona di guerra, se ci sono elementi sufficienti che dicono che vuoi raggiungere il territorio siriano o iracheno. Si può essere arrestati solo in base alla volontà di associarsi all’Isis, prima ancora di aver fatto azioni concrete e prescindendo da una condotta materiale criminale». Queste sono norme «fortemente repressive, di più non si può fare, a meno di diventare uno Stato di polizia».

L’Italia deve però migliorare la prevenzione ed è per questo che insieme ad Andrea Manciulli (Pd), l’ex magistrato ha presentato un progetto di legge per prevenire la radicalizzazione: «Dobbiamo evitare che tra 20 anni i nostri figli si trovino nella stessa situazione della Francia. Dobbiamo evitare che un domani possano radicalizzarsi gli immigrati di fede musulmana che oggi scappano dalla guerra e che legittimamente si stabiliscono nel nostro paese. Il nostro progetto di legge prevede importanti interventi nelle scuole e nelle carceri, oltre all’introduzione di un sistema di contro-informazione che raggiunga gli immigrati musulmani di seconda e terza generazione. Sottolineo che non dobbiamo mettere in atto simili sforzi perché siamo buoni, ma perché è utile».

Tutti questi fattori hanno finora evitato all’Italia di passare attraverso esperienze terroristiche «scioccanti». Secondo l’esperto del Corriere della Sera, però, non possiamo farci illusioni: «Un attentato potrebbe sempre accadere. La verità è che non sappiamo ancora come arginare il fenomeno. Dobbiamo abituarci, perché dovremo convivere con questo pericolo per anni». Fino a quando? «L’Isis non è nato dal nulla – prosegue – è il sintomo cattivo di un problema, quello dell’islam sunnita. Finché ci saranno contrasti regionali, religiosi e geostrategici in Medio Oriente tra sunniti e sciiti, e ci saranno paesi che alimentano l’estremismo sunnita, ci sarà sempre una struttura che raccoglie e alimenta questo messaggio. Abbiamo sconfitto al Qaeda in Iraq, poi però è nato l’Isis. Si può fare la guerra a un’idea? Per me è impossibile».

Conclude Micalessin: «Per me la degenerazione nasce dentro l’islam e lì va affrontata. Ci sono alleati islamici dell’Occidente molto più vicini all’Isis che a noi. Fino a quando l’islam non si muoverà per risolvere il problema del radicalismo, nasceranno sempre nuovi gruppi. Ed è per questo che parlare genericamente di estremismo dopo gli attentati, come fanno Hollande e Obama, e non di terrorismo islamico, non è una soluzione ma un’aggravante. È come chiamare influenza un tumore e cercare di curarlo con l’aspirina».

@LeoneGrotti

Tags: Gian Micalessinguido olimpioIsisIslamLorenzo VidinomolenbeekStato Islamicostefano dambruosostrage di OrlandoTerrorismo Islamico
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