Quando si ragiona di immigrazione musulmana e terzomondiale in Italia e, in genere, in Europa, sembra che vi siano solo due categorie possibili: quella dell’apertura e dell’accoglienza scriteriate da una parte, del razzismo e della xenofobia dall’altra. Ma, come ha giustamente osservato Angelo Panebianco dalle colonne del Corriere della Sera, il problema è ben più serio e complicato, e solo l’irresponsabilità dei “piallatori” dell’industria massmediatica possono ridurre la questione alla contrapposizione manichea, tanto in voga nei talk show, tra buoni (i multiculturalisti) e cattivi (egoisti, haideriani, leghisti). È un fatto che nella vulgata scolastica, culturale e masmediatica dominante siano comunque i primi a prevalere, e cioè nota Panebianco, coloro che invocano “più rispetto e attenzione per le culture altrui (meglio se extraoccidentali) che per la propria”, coloro che brandiscono come bandiera (e rito purificatore della propria coscienza) “il relativismo culturale (l’assurda e contraddittoria idea che tutte le culture si equivalgano)”. Per cui può capitare che un ministro della Repubblica, chiamata a commentare il dato demografico secondo cui l’Italia (ma il resto dell’Europa, con la sola eccezione dell’Irlanda, non sta molto meglio) nel 2050 avrà 16 milioni in meno di abitanti, passando dagli attuali 57 a 41, un terzo dei quali (quasi 15 milioni) costituiti da immigrati in larga parte musulmani, trovi normale rispondere: “che c’è di male? L’Italia sarà multiculturale”. Trattasi di ragionamento di una astrattezza e irresponsabilità odiose, perché un tale ribaltamento demografico senza una guida politica rigorosa e razionale rischia, come afferma con espressione chiara Panebianco, “di scoppiarci in faccia”, in altre parole rischia di produrre un risultato esattamente contrario a quello perseguito dai multiculturalisti: la contrapposizione violenta anziché la pacifica convivenza.
Si può ragionare laicamente di immigrazione e culture extraeuropee senza incorrere nei fulmini degli opposti estremismi? Si può e si deve, e tanto meglio se si riesce a farlo per punti sintetici.
Punto primo. Nessuno può negare a priori ad un’altra persona la libertà di praticare la propria religione o di conformarsi alla sua cultura di origine, in quanto si tratta di diritti umani universali. La libertà di culto fa parte della dichiarazione universale dei diritti umani, e la stessa Chiesa cattolica la ammette in quanto espressione della libertà di coscienza, che non può mai essere coartata in quanto ogni essere umano deve poter liberamente cercare la Verità e quindi, ovviamente, pregarla.
Punto secondo. Dal primo punto non deriva affatto che tutte le religioni e tutte le culture sono uguali, sia come dignità intrinseca (è la posizione dell’etnoculturalismo di Claude Levy-Strauss, che tanto successo ha avuto negli ambienti terzomondisti, sia di sinistra che cattolici) che come posizione di fronte alla legge positiva. Per un occidentale medio, culturalmente formato dall’eredità giudaico-cristiana e dalle sue successive eresie (illuminismo, liberalismo, marxismo, ecc.), una cultura o una religione che prevedano la mutilazione sessuale delle donne o che ammettano e riservino la poligamia al maschio o che impongano la mutilazione dei ladri o che dividano la società in caste, non hanno affatto la stessa dignità di culture e religioni che non fanno queste cose.
Punto terzo. La società dell’Occidente cristiano è una società aperta (K. Popper), dove c’è spazio per tutte le espressioni politiche, culturali e religiose. Ma non è un vuoto pneumatico: si dà il caso che questa società abbia delle leggi, e queste leggi derivano ovviamente dalla sua cultura giudaico-cristiana-illuminista, di impronta universale. In forza di queste leggi un immigrato musulmano o di altra religione può edificare una moschea o un tempio, può circoncidere un figlio maschio, può seguire la dieta alimentare che preferisce, può propagandare la sua fede religiosa. Ma, sempre in forza di queste leggi, non potrà pretendere di condannare a morte il musulmano che abiura la sua religione, non potrà sposare più di una donna, non potrà praticare l’escissione sulla figlia femmina, non potrà evitare che sulla carta d’identità di sua moglie sia visibile il volto di costei, ecc.
Punto quarto. Le società dell’Occidente hanno due buoni motivi per esigere l’osservanza delle loro leggi dagli immigrati di religione e tradizione culturale diverse da quelle storiche occidentali: il loro apparato giuridico ha un approccio più universale e più attento alla protezione degli individui concreti in forza delle sue origini giudaico-cristiane (e questo è un giudizio di valore) e rappresentano la base pratica su cui può avvenire un minimo di integrazione degli immigrati nella società che li riceve. Possono restare fedeli alle loro origini, ma non fino al punto di evitare quel minimo di integrazione rappresentato dall’osservanza della legge del paese che li ospita.
Ci rendiamo conto che questi quattro punti, apparentemente molto semplici, incontrano obiezioni e resistenze. C’è chi vorrebbe un’assimilazione totale degli immigrati e chi invece auspica una società multiculturale dove ogni gruppo ha il diritto di attuare in pieno i suoi valori e precetti, per quanto inaccettabili possano risultare all’altro. C’è chi vorrebbe chiudere totalmente le porte all’emigrazione in nome dei diritti degli “indigeni” e c’è chi vorrebbe aprirle completamente in nome del diritto dei migranti di cercare lavoro e una vita migliore, considerati diritti universali.
La nostra posizione è quella dettata dal realismo: l’immigrazione non può essere completamente arrestata per ragioni demografiche (c’è un forte divario fra i tassi di fecondità del Terzo mondo e quelli dei paesi ricchi) ed economiche (per certi lavori sono ormai disponibili solo gli immigrati); ma un’immigrazione troppo forte per un tempo troppo lungo è destinata a produrre squilibri e violenze sociali, perché non sarà possibile integrare tutti né dal punto di vista economico né da quello dell’adesione ai valori di fondo della nostra società. Tutti i paesi del mondo che, in questo secolo, hanno conosciuto fenomeni migratori troppo rapidi e intensi, si sono trovati a fare i conti con la xenofobia: pensiamo ai moti di Los Angeles, alla rivolta di Brixton, alla caccia al cinese in Indonesia, alle violenze fra nomadi e contadini in Africa, ecc.
Vorremmo poi che i nostri governanti si ponessero, laicamente, il problema della reciprocità: perché le organizzazioni islamiche possono richiedere e ottenere in Italia e in Europa riconoscimento pubblico in nome della tolleranza quando un europeo in Arabia Saudita non può nemmeno portare la croce al collo? Perché a me cattolico o protestante o ebreo che vivo in Turchia è fatto tassativo divieto di costruire chiese o sinagoghe mentre a Roma o a Parigi devo accettare la costruzione di enormi moschee? Perché io a Roma posso contemplare la più grande moschea d’Europa, e i cristiani di Nazareth non possono più guardare nemmeno la Basilica dell’Annuznciazione, perché i musulmani hanno occupato un terreno e costruiranno una moschea proprio a ridosso del più importante santuario dell cristianità? Perché siamo tolleranti, diciamo all’amico islamico. E un leale amico islamico potrebbe anche risponderci: “ma tolleranti non significa idioti”. Perciò: perché non dovremmo chiedere ai paesi islamici le garanzie che noi giustamente concediamo agli immigrati musulmani? Sta di fatto che l’attuale governo italiano non ha finora mai preso in considerazione nessuno dei punti sopra sollevati: l’emigrazione nel nostro paese procede selvaggiamente, poichè alle “quote” annue si aggiungono la sanatorie e flussi incontrollabili di clandestini; nulla viene fatto per promuovere l’integrazione culturale, oltre che economica, degli immigrati; e nessun uomo politico mette all’ordine del giorno il tema della reciprocità dei diritti. Perché? Noi un’idea ce la siamo fatta. La sinistra non fa nulla per dare un ordine al caos immigratorio perché pensa di lucrare politicamente sul fenomeno: vuole anzitutto creare un grande bacino di marginali che non abbiano altro ricorso che lo Stato, occupato appunto dalla sinistra; vuole procedere a veloci naturalizzazioni nella speranza di intercettare qualche milione di voti; e vuole trasformare l’Italia in una società fragile, frammentata, conflittuale come sono tutte le società accentuatamente multiculturali per potersi presentare come “tutor” e mediatore fra i vari gruppi sociali. Per potere cioè realizzare “più Stato, meno società”. Questa è la grande mistificazione che sta dietro tanti discorsi solidaristici. Non solo grande, ma criminale: non produce convivenza fra diversi, ma nuovi, incontrollabili conflitti.