Dalle prime pagine dei giornali il fenomeno criminalità legato alle bande di immigrati è stato ormai scalzato dalle polemiche su un governo allo sbando anche sul riordino delle forze di polizia per le presunte pressioni esercitate dal Cocer, l’organizzazione parasindacale dell’Arma. Ma nelle cronache nazionali e locali quella che viene definita “emergenza criminalità” è sempre di grande attualità. E proprio a margine di queste cronache, nelle scorse settimane, è uscita la notizia che all’interno del Servizio centrale operativo della polizia si sarebbe costituita una sezione “criminalità organizzata albanese” per fronteggiare il fenomeno. L’inchiesta cominciata sullo scorso numero di Tempi ci porta perciò questa settimana in una villetta-bunker al quartiere Eur di Roma dove ha sede la direzione dello Sco, servizio “speciale” all’interno della Polizia che, va subito detto, con il decreto Napolitano del ’98 ha smesso la propria funzione operativa quale diretto interlocutore dell’autorità giudiziaria mantenendo un ruolo di coordinamento. L’obiettivo dichiarato era quello di arricchire le forze di polizia presenti sul territorio sfruttando il patrimonio di professionalità e specializzazione universalmente riconosciuto allo Sco. In realtà, si obbietta da più parti, la dispersione di questa ricchezza professionale nelle maglie della burocrazia del dipartimento di pubblica sicurezza ha semplicemente finito per impoverirne l’efficienza. E forse non è un caso che, nell’ambito del riordino delle forze di pubblica sicurezza, è allo studio un nuovo decreto legge che dovrebbe ridefinire l’attività di questi corpi di polizia. Ma su questo tema le polemiche si sprecano e il nostro interlocutore non ha nessuna intenzione di arricchirle di un nuovo capitolo. Feliciano Marruzzo, vicequestore aggiunto dello Sco è il dirigente che guida proprio la sezione di criminalità straniera e di questo ha accettato di parlare.
“Per quanto il necessario riserbo imposto dal mio ruolo mi consente. La sezione criminalità straniera che io dirigo è stata costituita nel ’97, ma in questo decennio l’immigrazione albanese è sempre stata tenuta sotto controllo e quando ci si è resi conto che sorgeva una criminalità legata agli sbarchi dall’Albania come Sco abbiamo incominciato a studiare il fenomeno”.
In cosa consiste precisamente l’attività della sezione che lei guida? C’è una squadra che si preoccupa di acquisire dati sul fenomeno da altri fonti, li analizza, valuta quali soluzioni sia necessario adottare e quindi sollecita gli interventi e le indagini sul territorio, naturalmente coordinandoli. In questa attività siamo in stretto raccordo con tutte le squadre mobili d’Italia all’interno delle quali sono state create altre sezioni che si occupano di criminalità albanese e collaboriamo con le sezioni di criminalità organizzata esistenti presso le squadre mobili.
Dai vostri dati qual è il quadro della situazione che emerge? Innanzitutto è necessario distinguere tra gruppi di albanesi che compiono atti che potremmo definire di “teppismo” e bande impegnate in attività illecite più gravi quali il traffico di droga, lo sfruttamento della prostituzione oppure la gestione dell’immigrazione clandestina. In ogni caso si può dire che la criminalità albanese non è organizzata in una struttura piramidale unica: non esiste una “mafia albanese” strutturata gerarchicamente. Si tratta di piccoli gruppi di soggetti che operano in proprio o mantengono rapporti superficiali con la criminalità del luogo. Spesso cioè non si tratta di grossi criminali, ma di bande più o meno improvvisate con notevole mobilità sul territorio. Gli assalti ad abitazioni che si registrano sono fenomeni circoscritti legati all’attività di gruppi che quando si accorgono di essere stati individuati cambiano immediatamente zona. Soprattutto se si tratta di clandestini che non vogliono essere identificati, cosa che nei paesi piccoli è più facile. Certamente l’aggressione in casa è il reato che più preoccupa i cittadini, spesso anche per la violenza che lo caratterizza, ma è anche quello che più facilmente sfugge a un controllo sistematico perché, appunto, è legato a un’attività criminale isolata e potremmo dire “nomade”.
In ogni caso, il problema della criminalità non riguarda solo gli albanesi. Quali altri fenomeni di delinquenza organizzata si stanno radicando in Italia? Per esempio, esistono le organizzazioni cinesi. Le quali, probabilmente per la grande distanza culurale che le separano dai valori della nostra società, operano quasi esclusivamente all’interno delle stesse comunità cinesi. Il criminale cinese sfrutta la prostituzione all’interno della sua criminalità oppure rapina solo membri della sua comunità, magari per riscattare un proprio parente giunto in Italia. Anche in questo caso non bisogna immaginare organizzazioni criminali da film.
Spesso però si parla di una vera e propria “mafia cinese”…
Certamente stiamo indagando per definire meglio il fenomeno. Per esempio molti ristoranti cinesi sembrano sempre vuoti, eppure non falliscono mai…
Per esempio, qualcuno faceva notare che i cinesi sembrano non morire mai. Muoiono immigrati di tutte le nazionalità, ma non si ha notizia di funerali di cinesi regolarmente immigrati. Come mai? È una domanda interessante. Chi faceva notare questo fatto aveva anche una risposta? Noi non l’abbiamo ancora, ma sarebbe interessante scoprirla…
Insomma, il fenomeno della criminalità straniera è in gran parte ancora da scoprire. Ma tra le stesse forze dell’ordine si percepisce una certa rassegnazione per i problemi di organizzazione e coordinamento che spesso vanificano gli sforzi fatti. Lei che del coordinamento fa uno dei suoi obiettivi principali, cosa pensa? Esistono delle procedure precise per il segnalamento e l’identificazione dei soggetti sorpresi in attività illeciti, o magari semplicemente clandestini. Ed esistono dei tempi tecnici per l’inserimento dei dati negli archivi nazionali che permettono la consultazione a tutte le forze dell’ordine. Un cittadino straniero semplicemente sprovvisto di documenti può essere sottoposto a fermo per un tempo massimo di dodici ore: se il fermo avviene in un paese di provincia, oppure in una città dove il clandestino non è mai stato segnalato in precedenza, è necessaria una verifica a livello nazionale nel casellario di Roma che spesso in dodici ore è quasi impossibile. Per cui si è costretti a rilasciarlo.
In questo periodo si discute molto di riforme delle forze di polizia. Secondo lei, dove bisognerebbe intervenire? Io non sono un politico, sono un semplice vicequestore della polizia di Stato, e non compete a me pensare a eventuali riforme possibili.
Ovviamente non può dire nulla nemmeno della discussa riforma dell’Arma dei carabinieri che ora, caso unico nel mondo occidentale, unisce compiti di polizia militare a compiti di ordine pubblico? “Guardi, le mie conoscenze di diritto internazionale si fermano agli studi universitari. Per il resto mi occupo di investigazione”.