

Articolo tratto dal numero di ottobre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Gli antropologi spiegano che l’uomo è uomo da quando seppellisce i suoi morti. Sin dai primordi, è ciò che ci differenzia dagli animali. Piangiamo chi è stato con noi, lo ricopriamo con la terra per non fargli sentire il peso del tempo, soprattutto ci diamo un luogo dove ricordarlo per non farlo svanire tra labili pensieri. L’homo è sapiens da quando dà sepoltura ai suoi simili. Egli è religiosus, ci dicono ancora gli antropologi: riconosce cioè la misteriosa esistenza di un oltre che non possiede né comprende del tutto e che tuttavia – i defunti ne sono quasi il tramite e il varco – è tra noi. Non riconoscere che “coloro che non sono più qui” non meritino di essere commemorati è un atto di empietà punito dagli dei, ci ricorda tutta la letteratura omerica. Come ha notato Giuliano Ferrara sul Foglio, la vicenda dei feti sepolti con i nomi della madri al cimitero Flaminio di Roma ruota attorno a questo: a una pietà ridotta a «esercizio ginnico», allo scatto del collo che ci consente di «voltarci dall’altra parte», di non fare i conti con quel che è e col suo nome.
Si può convenire con chi ha denunciato il caso che non sia molto garbato apporre sulle croci del cimitero il nome delle madri. La cara Paola Marozzi Bonzi lo predicò per anni: nell’aborto sono due le vittime, il bambino e la mamma, e questa è una lezione che non va mai dimenticata. Ma al contempo andranno sottolineate le parole di M. L. che, sette mesi dopo il suo aborto terapeutico, ha scoperto che in uno spicchio del camposanto romano c’era una bianca croce sbilenca con impresso il suo nome di battesimo. Per esprimere il suo dolore e sdegno ha scritto sui social network: «Ma questa non è la mia tomba, è quella di mio figlio».
Ha proprio usato la parola «figlio». C’è un termine più significativo ed esatto per riconoscere di cosa stiamo parlando? Eppure, nei giorni seguenti, quel «figlio» è scomparso. Sui giornali e sui siti internet, nelle dichiarazioni dei politici che si sono susseguite sul caso, si è smesso di parlare di «figli» e si è passati a dibattere di «prodotti del concepimento», di «feti», di «prodotti abortivi». Quel che era un figlio è diventato un feto, quella che era una madre è diventata una donna, quello che era un bambino è diventato un prodotto. E un prodotto non lo si seppellisce, lo si smaltisce. È un “rifiuto ospedaliero”, è un aborto di NN.
Quindici anni fa, questo giornale pubblicò un’intervista a Giorgio Pardi, primario ginecologo della Mangiagalli di Milano, primo dottore in Italia a praticare un’interruzione di gravidanza. Pardi dettò con insistenza a Tempi questa dichiarazione: «Scriva scriva scriva che il dottor Pardi Giorgio è ateo o, se preferisce, è un laico. E aggiunga anche che per ritenere l’aborto un omicidio non serve la fede. Basta l’osservazione. Quello è un bambino. L’aborto è un omicidio. Fatto per legittima difesa della donna». La nostra posizione rimaneva inconciliabile con quella di Pardi, ma, almeno, entrambi partivano dal riconoscimento di un’evidenza: quello era un bambino, non c’erano dubbi. Tanto che lo stesso primario della Mangiagalli, spesso anche bisticciando con gli ambienti pro choice milanesi, si dava da fare perché nell’ospedale potesse agire il Centro aiuto alla vita e alle madri potesse essere data veramente un’alternativa.
Invece quarantadue anni di legge 194 non ci hanno portato a questa consapevolezza, ma solo alla rimozione del vero protagonista della vicenda, che è lui, il bambino, «mio figlio» come ha detto M. L.
È lui il grande dimenticato, che nessuna cosmesi linguistica potrà mai cancellare. Riconoscere che egli è un “qualcuno” e non un “qualcosa”, dargli sepoltura, è il modo per restituirgli quella dignità di uomo che una legge e quarant’anni di martellante propaganda ideologica non vogliono accordargli. Che almeno sottoterra possa ricevere dal Cielo quelle cure che noi non abbiamo saputo dargli è un gesto di pietà che non dovremmo negargli e negarci. Il potente segno della croce dovrebbe ricordarci che là sotto non c’è una “cosa”, ma un “chi” e che è grazie all’innocenza di chi perì sul Golgota che può esere riscattata la sua e nostra misera anima di sapiens.
Foto Ansa
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