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Il Monte del Tempio, uno spazio per le religioni dei figli di Abramo

Un saggio spiega come gli studiosi islamici, all'opposto di quelli cristiani, abbiano scelto di negare il legame storico del mondo ebraico col Monte del Tempio

Giuseppe Reguzzoni
18/12/2022 - 5:52
Cultura
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Yerushalayim shel zahav … «Gerusalemme d’oro, di bronzo e di luce, / forse che io non sono un violino per tutte le tue canzoni? / Come si sono seccate le cisterne d’acqua, la piazza del mercato è vuota, / non c’è nessuno che visita il Monte del Tempio nella Città Vecchia, / nelle grotte che sono nella roccia gemono i venti, / e non c’è nessuno che scenda verso il Mar Morto sulla strada di Gerico. / Gerusalemme d’oro…».

Così recita una canzone di Naomi Shemer, di qualche anno fa, ma ormai divenuta popolarissima, e che, peraltro, riprende il filo di antiche citazioni bibliche. E certamente nelle immagini più comuni della Città – santa a ebrei, cristiani e musulmani – spicca la cupola dorata della moschea di Al-Aqsà, parte più evidente del complesso di edifici religiosi di Gerusalemme, conosciuto come come Har ha-Bayit (il monte del Tempio) dagli ebrei, come Monte Majid o al-Ḥaram al-Sharīf (il nobile santuario) dai musulmani, come Tempio di Salomone dai cristiani, come la «spianata delle moschee» per le semplificazioni giornalistiche occidentali.

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La storia, pur in mezzo ai dolorosi conflitti che hanno segnato questo luogo, non ha mai lasciato dubbi circa la sua sacralità per le tre religioni monoteiste, almeno sino alla contemporaneità, che ha visti e vede un conflitto che ha anche un suo specifico versante culturale.

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È una contemporaneità che ha toccato il suo vertice con la controversa decisione dell’Unesco del 13 ottobre 2016, in forza della quale il Monte del Tempio e l’area prospiciente il Muro Occidentale sono stati riconosciuti come luoghi santi esclusivamente dell’islam.

Questo provvedimento, fortemente voluto da alcuni paesi arabo-musulmani e imposto a maggioranza, ha un suo preciso retroterra culturale su cui getta ora una luce nuova il volume di Yizhak Reiter e Dvir Dimant, Il Monte del Tempio. Ebraismo, Islam e la Roccia contesa, appena pubblicato da Guerini e Associati (Milano 2022, 206 p., euro 17, 58), nella magistrale traduzione italiana di Vittorio Robiati Bendaud, con postfazione dello stesso e di Antonia Arslan.

Studiosi islamici

Si tratta di un’opera coltissima, che sorprende per la ricchezza dei documenti prodotti a illustrare il cambiamento radicale avvenuto nel punto di vista islamico sul Monte del Tempio e sul suo rapporto con la storia e la tradizione ebraica. Dopo l’Introduzione, la prima parte del volume dimostra, infatti, come le fonti islamiche tradizionali, almeno sino all’inizio del XX secolo, abbiano sempre riconosciuto la storia ebraica di quei luoghi, proprio perché, in linea con la ripresa parziale e la reinterpretazione della tradizione biblica, l’islam «santifica Gerusalemme e il complesso dell’area del Monte del tempio (la Moschea Al-Aqsà/Al-Haram al-Sharif) in primo luogo perché originariamente sacra per gli ebrei e, quindi, per i cristiani».

Le cose cambiano, radicalmente, a cominciare dall’inizio del secolo XX, quando gli studiosi islamici, con pochissime eccezioni, in un crescendo polemico, iniziano a negare il legame storico del mondo ebraico col Monte del Tempio. Ciò avviene, in molti casi con tesi e argomenti a tratti bizzarri, come quando si citano studi secondo cui «gli israeliti non hanno lasciato in Palestina vestigia alcuna» o, addirittura, che il Tempio non sarebbe stato che un modesto luogo di culto, per di più non sito in Palestina ed esistito solo per un tempo assai limitato.

«Il Tempio non fu importante per gli ebrei»

Risparmiamo al lettore l’elenco dei nomi di questi studiosi, tutti «a tesi», le cui posizioni sono ampiamente documentate nel volume di Reiter e Dimant, ma osserviamo almeno che da parte loro si pone la questione del rapporto con le fonti islamiche più antiche, che, quando riconoscono un legame ebraico, sono però considerate non attendibili dalla storiografia islamica contemporanea.

Tanto più che non mancano studiosi di questa linea che sostengono che Abramo, Davide, Salomone eressero la moschea di Al-Aqsà, e non un luogo di culto ebraico, perché figure islamiche (p. 128). Giustamente, gli autori fanno notare che la demolizione delle fonti islamiche della sacralità giudaica di Gerusalemme finisce per distruggere le fondamenta stesse della sua sacralità per lo stesso islam. Non va meglio con i testi arabo-islamici contemporanei che magari riconoscono un qualche legame storico dell’ebraismo con il Monte del Tempio, senza però comprendere il senso del Tempio ebraico come tale, pur ammettendo l’esistenza e l’entità storica dei due antichi edifici, dal momento che «il Tempio non fu importante per gli ebrei e la fede ebraica».

Si scopre così che alla radice della svolta novecentesca nell’interpretazione storica islamica del Monte del Tempio ci sono, con una certa evidenza, motivazioni legate a un certo integralismo religioso, ma anche e soprattutto ragioni politiche: l’ostilità al “sionismo” e parecchie idee confuse al riguardo.

Difesa dei cristiani d’Oriente

Prima di accostare la Conclusione del volume, vale qui la pena di indicare tale mal compreso significato del Tempio, riprendendo le parole di un antesignano del dialogo cristiano-ebraico, quale fu, appunto, il cardinale Jean Daniélou: «L’unità del santuario era il segno dell’unicità di Dio» (Il segno del tempio, Brescia 1953, p. 20). Un’idea che si trova espressa con chiarezza già nelle Antiquitates Iudaicae di Flavio Giuseppe: «Non c’è che un tempio per il Dio unico, perché sempre il simile ama il suo simile, comune a tutti, come Dio è comune a tutti». Del resto, è questo il senso che il Tempio ha anche in numerosi episodi della vita di Gesù (tutti brevemente riportati da Daniélou) ed è anche il senso del suo superamento, per i cristiani, nel nuovo tempio: la dimora dell’Eterno, «la shekinah, non è più il tempio, ma l’Umanità di Gesù» (o.c., p. 24).

Ed è forse anche questa la ragione ideale per cui, come ricordano Bendaud e Arslan nella loro Postfazione, l’edizione italiana del volume di Reiter e Dimant è stata voluta e finanziata dalla Christians in Need Foundation, impegnato nella difesa dei cristiani d’Oriente, armeni, ma anche assiri e copti: il Monte del Tempio è patrimonio comune di ebrei, cristiani e musulmani e tale dovrebbe rimanere.

La negazione dei legami ebraici

Così, nella Conclusione Reiter e Dimant spiegano che «la negazione dei legami ebraici con il Monte del Tempio per fini politici involontariamente va a minare la legittimità stessa della santificazione di Al-Aqsà e della cupola della roccia, come pure l’autorevolezza delle più rilevanti fonti arabe, che costituiscono il fondamento tradizionale dell’Islam» (p.180).

Con un’Appendice: «l’Islam ha da subito messo in discussione l’integrità dei testi sacri ebraici e cristiani», accusando gli uni e gli altri di aver manomesso il testo sacro. Ora, «questo atteggiamento è opposto rispetto a quello cristiano, che recepisce, venerandola, la Bibbia ebraica», la Tanak.

E, aggiungiamo noi: la negazione di questa «venerazione» della Bibbia ebraica – o Antico Testamento – ha il nome di una gravissima eresia dei primi secoli, il marcionismo, che a tratti torna a ripresentarsi nella storia del cristianesimo, a volte in maniera aperta, se non sguaiata, altre volte attraverso forme di silenzio o imbarazzo. Ed è anche per contrastare questi silenzi che «Il Monte del Tempio» si propone al pubblico di lingua italiana, aprendo un orizzonte storico e culturale essenziale per la nostra cultura.

Foto Ansa

Tags: antonia arslanebraismogerusalemmeIslamjean danieloulibri
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