Ho passato i primi 5 anni della mia vita tra le montagne valdesi e Torino, con puntate in Sicilia, Londra, Ginevra, Parigi. Quando la famiglia si stabilì a Torino, poco prima del mio sesto compleanno, oltre che essere bilingue in francese e italiano capivo patois e piemontese e un po’ di inglese e “conoscevo il mondo”. Sapevo che c’erano tanti colori, lingue, religioni ed ero cosciente del fatto che la mia religione pur essendo la maggioranza quasi assoluta nel mio paesello alpino, era fortemente minoritaria in Italia – ma non in Inghilterra e Svizzera – e sapevo pure che in situazione analoga erano gli ebrei – che conoscevo dalla “scuola domenicale” e dai sermoni a volte uditi (senza capire molto) ai culti degli adulti.
Alla scuola ebraica
Frequentai la I elementare nella felice scuoletta di montagna (pochi bambini, maschi e femmine insieme, un’insegnante eccellente) fino quasi a Natale e poi a Torino in una scuola pubblica con 40 allieve e poca apertura mentale. L’anno dopo approdai alla scuola ebraica. I miei avevano amici ebrei ma questi erano per me soprattutto il popolo di Dio, il popolo eletto, spesso disobbediente e spesso punito dal Signore, ma ciononostante, sempre molto amato. Si era di nuovo in classi più piccole, miste e oltre a una maggioranza ebraica c’era una consistente minoranza protestante. La scuola era seria e severa, ma si godeva di tutte le feste cristiane ed ebraiche, compresi sabato e domenica liberi, cosa allora unica. Era stata aperta in seguito alle “leggi razziali” in un buio periodo di persecuzioni che nella mia giovane testa si mescolavano con quelle più antiche, soprattutto dei valdesi, di cui avevo sentito gli adulti parlare nelle Valli. Storie di resistenze che si mescolavano con la Resistenza da poco finita di cui molti genitori, nei miei monti come nella scuola ebraica, erano stati protagonisti. Però più cupa aleggiava sulla scuola una sempre presente nube di tristezza e di paura; c’erano storie che gli adulti interrompevano quando arrivavamo noi bambini, parole captate a metà, nomi pronunciati a testa bassa, con commozione; tutti sapevamo in qualche modo il significato di nazisti e fascisti, i cattivi, i nemici, ma molto più vago confuso e quindi minaccioso era quello di kapò, per esempio; e che cos’era successo in quei campi che certo non erano le belle distese verdi o innevate o dorate delle Valli che tanto mi mancavano? A maggior ragione nella severa buia e maestosa area della scuola, adiacente alla sinagoga, all’appartamento del rabbino e a un inizio di biblioteca-museo risuonava come felicità e speranza l’augusto nome di Israele: la terra promessa come lo era stata un tempo per Abramo e dove ora bambini della nostra età, giovani e adulti costruivano il futuro, piantavano alberi, trasformavamo in giardino il deserto. E ogni fiore, ogni frutto era segno del rinnovato patto di Dio con il Suo popolo. La bufera era stata tremenda, ma ora dopo quasi due millenni la promessa si era fatta realtà: forse era valsa la pena di tanto patimento per aver finalmente di nuovo una terra, una patria. Vedendo i filmini bianchi e neri e saltellanti ma così pieni di gioia, mi appassionavo ad Israele, che sentivo come conquista anche mia. Israele era anche la mia terra promessa e io, che appartenevo a quello che era stato chiamato l’Israele delle Alpi, perseguitato per il suo amore per la Bibbia che lo legava al “popolo del Libro” mi formavo un’identità con forti elementi ebraici, tipo accentuata iconoclastia, orrore nel sentir pronunciare invano il nome dell’Onnipotente, cose comunque in perfetta sintonia con l’educazione valdese di allora, e una certa riluttanza verso la pur limitatissima presenza di Maria Vergine (di fatto nominata solo nel Credo apostolico) nella nostra liturgia. Cosa che non mi infastidiva era che il popolo ebraico fosse quello eletto, perché sapevo che grazie a Gesù (un ebreo che loro però disprezzavano) eravamo tutti salvati e eletti.
Il ricordo sul braccio di Primo Levi
La prima dichiarazione d’amore me la fece un bambino dai lunghi riccioli biondi di nome Daniele, con cui ci tenevamo per mano durante le lunghe preghiere in ebraico; divenni molto amica di alcune bambine, di cui una di nome Lisa. Lisa aveva un padre dall’aria buona e gli occhi dolci che aveva scritto un libro molto bello dicevano i miei abbassando gli occhi. Purtroppo poco apprezzato e oramai introvabile. D’estate la famiglia di Lisa veniva nelle mie montagne e durante le vacanze della III elementare con tripudio apprendemmo che saremmo state vicine di casa! Durante una gita mi trovai di fronte a un ruscello e mentre ponderavo su come attraversarlo ecco il papà di Lisa offrirmi una mano per aiutarmi. Quel gesto cambiò la mia vita: inciso sull’avambraccio stava un numero grigiastro dall’aria sinistra. “Che cos’è quello?” chiesi e notai l’imbarazzo di mio padre che aveva seguito la scenetta a pochi passi di distanza. “Un ricordo che mi hanno lasciato i tedeschi” rispose Primo Levi, che era appunto il padre della piccola Lisa. Cocciuta com’ero non trovai la risposta esauriente e ancor meno plausibile: come? Perché? La guerra era finita, il nazismo sconfitto, come poteva esserci ancora un segno così? Vivendo in montagna sapevo che si marchiava il bestiame, cosa che mi faceva patire, come il maiale o il vitello trascinati al macello, ma un essere umano! E una persona dolce e buona come il papà di Lisa! Prima tutto mi era sembrato remoto: la guerra, le guerre, la minaccia confusa, la nube aleggiante. Ora, sotto quel sole smagliante in un cielo di cobalto, tutto l’orrore del mondo mi precipitava addosso e perdevo la mia innocenza. Continuai a tempestare di domande Levi e ogni adulto che mi capitava a tiro fino a che mia madre decise di leggermi come libro della “buona notte” Se questo è un uomo, che ancora adesso non posso leggere senza piangere. La cosa che più mi turbava era la mancanza di risposta ai miei perché. Perché gli ebrei? Perché tutti gli ebrei? Ma allora anche i bambini? Ma allora non molti anni prima la maggior parte dei miei compagni di scuola avrebbe potuto divenire un filo di fumo in un camino? Perché? L’orrore era troppo, ma capisco la linea adottata dai miei genitori e da Levi. Non mi avevano forzata a sapere, ma visto che insistevo e volevo sapere la verità, la verità dovevano dirmi. Mi addormentavo pregando il Signore che cose così non succedessero mai più e sognavo di essere una partigiana per poter liberare Primo Levi dal campo di sterminio. Israele, nato dalle ceneri e dalle rovine d’Europa era il rifugio e la speranza di scampati come Primo Levi e io l’amavo di tutto cuore.
Quando cominciò a soffiare il vento dell’est
Fu la mia generazione, quella che diventerà “il ‘68” a trasformare in best seller questo e gli altri libri di Primo Levi. Fummo noi i primi a parlare, meglio gridare di Resistenza, fino ad allora taciuta perfino nel mio augusto Liceo D’Azeglio che ne era stata, insieme con le mie Valli, la culla. Deportati, internati, ebrei, esuli, prigionieri politici, confinati, partigiani: questi erano i nostri eroi e il nemico, il male erano fascismo e nazismo. A cui non pochi in quegli anni aggiungevano ancora comunismo, stalinismo. Poi iniziò a soffiare il “Vento dell’Est”, i rampolli di famiglie liberalissime smisero di disdegnare il totalitarismo del momento. Forse perché nei posti rimasti fascisti come Spagna e Portogallo chi lottava erano i comunisti; il comunista Grimau garrotato da Franco trasformò il comunismo in nobile ideologia perché ignobile fu il suo assassinio. Feci il primo timido sciopero della mia vita per lui; avevo 13 anni e uscimmo in due, all’ultima ora, io e un ragazzino che, a onor del vero, era assai più interessato a me che al povero Grimau.
Gocce di sangue per Israele
Poi si annunciò quella che divenne la “Guerra dei 6 giorni”. Allora ero già comunista, agguerrita e piena di letture. In quella fase amavo Trotzkij, cosa che mi permetteva di difendermi dagli attacchi contro Stalin e il socialismo reale. Scema non sono mai stata, quindi come posso giustificare il fatto che dopo qualche trepidazione e titubanza, avendo visto che il piccolo Israele non era stato annientato dai milioni di nemici, anzi se la cavava bene e vinceva con una guerra lampo, mi feci conquistare dalla becera propaganda antisionista dell’Unità che difendeva a spada tratta i nazisteggianti Stati arabi, come dettava l’Unione Sovietica? E con me tutti i ragazzi ebrei del “movimento”. Questo in una città come Torino in cui La Stampa – direttore Arrigo Levi – organizzava la raccolta di una goccia di sangue per Israele e tutti i benpensanti stavano con lo staterello in pericolo, l’unica democrazia di tutta la pur ampia zona. Forse per questo come pecoroni ci schierammo contro e perché l’antiamericanismo che avrebbe dominato l’Italia per i successivi 40 anni era già all’opera. Certi gruppi erano più filoarabi di altri – i più stalinisti, come i vari partiti Ml o gli statalini e i milanesi più dei torinesi, ma tutti amavamo Al Fatah e i fedayn, perché ci sembravano romantici guerriglieri inermi contro un agguerrito esercito foraggiato dai dollari Usa. 35 anni dopo avremmo imparato che cosa “inermi guerriglieri” possano fare contro il simbolo della ricchezza e della potenza Usa. Intanto La Stampa è diventata parecchio anti Israele, come quasi tutti i giornali italiani, e gli italiani e questa è una delle cose per cui possiamo ringraziare il dopo ’68 che fece, credo senza volerlo e senza accorgersene, da cassa di risonanza al Pci che si trasformò in un partito accettabile ai ceti medi assai prima dell’avvento di Berlinguer. Pur, ironia della sorte, credendo di contrapporglisi. Io però entrai nel Pci su posizioni di “destra” nel ‘75. E sempre non mi tornava il conto sul fatto che se la sinistra era tanto antifascista e antinazista, come poteva essere anche tanto visceralmente antisraeliana? E come si poteva separare Israele dagli ebrei e da Auschwitz al punto da fare della Resistenza, della memoria, della storia dei campi di concentramento quasi un feticcio e di Israele il nemico numero uno dopo gli Usa?
Inghilterra e Israele: un’unica famiglia
Fu però solo quando incontrai l’inglese che sarebbe diventato mio marito che scoprii che si poteva stare dalla parte di Israele senza sentirsi o sentirsi dare dei filoimperialisti guerrafondai affamatori del popolo e così via. E con estremo sollievo e fine dei sensi di colpa che mi angustiavano da oltre un decennio, ritornai all’amore istintivo dei miei verdi anni. Qui in Gb la maggior parte della gente a destra, centro e sinistra sta dalla parte di Israele, il che non vuol dire che a volte non lo critichi e non ne veda errori e difetti, come in tutto ciò che è umano. è come tra i propri alleati o nella propria famiglia, che però alleati e famiglia sono e restano.