Estremamente difficile replicare il successo di pubblico e critica di La ragazza del lago, primo lungometraggio di Andrea Molaioli, vincitore di 10 David di Donatello nel 2008. Eppure il regista classe 1967, dopo essersi fatto le ossa sui set di Nanni Moretti, Carlo Mazzacurati e Daniele Luchetti come aiuto-regista, ha spiccato il volo e con quest’opera seconda, Il gioiellino, non smentisce l’ottimo esordio, al contrario lo rafforza. La storia prende spunto dal terribile crac della Parmalat, l’azienda guidata da Calisto Tanzi, arrestato nel 2008 con l’accusa di bancarotta fraudolenta e aggiotaggio ma, come dichiarato dallo stesso regista, è un film che nasce dall’interesse nei confronti dei sistemi che regolano la finanza, spesso non compresi dai cittadini e che, a causa dei loro dissesti finanziari, comportano ingenti danni all’economia reale.
La Leda è un’azienda agro-alimentare a conduzione familiare che negli anni ha raggiunto una certa popolarità e un certo successo. Ramificata in cinque continenti, quotata in Borsa e protesa verso i nuovi mercati dell’est, è guidata da Amanzio Rastelli, padrone del “gioiellino” (un bravissimo e ritrovato Remo Girone), e ai posti di comando ci sono il figlio, impegnato nella gestione della squadra di calcio, la nipote laureata alla Bocconi e un ragioniere, direttore finanziario dell’intera azienda. Peccato che il management sia totalmente inadeguato, e non riesca a confrontarsi serenamente con le esigenze del mercato, spingendo il gruppo indebitarsi fortemente. In tutti i modi la dirigenza tenta di correre ai ripari, anche in maniera illecita, falsificando i bilanci, gonfiando le vendite, rivolgendosi a senatori e banchieri di indubbia influenza per sanare i debiti. Ma ormai il buco è di diverse migliaia di euro e sembra non esserci più niente da fare, se non dichiarare fallimento.
Squadra che vince non si cambia. E quindi ecco di nuovo Servillo nei panni del protagonista, il ragionier Botta, la vera mente del crac Leda, l’uomo che lavora notte e giorno e che non sa fare altro, che sfrutta tutte le sue conoscenze per riparare ai buchi di una gestione scellerata, sperando che la barca non affondi. Il suo carattere burbero e una conoscenza poco approfondita di alcuni meccanismi finanziari però, lo inducono spesso in errore, portando l’azienda a sprofondare in una voragine di debiti. Botta regge l’intera azienda e il suo interprete fa la stessa cosa con la pellicola, grazie a una recitazione monumentale e a un’espressività che non ritroviamo molto spesso negli attori della nuova generazione. Non è mai uguale Toni Servillo, capace come un camaleonte di regalare nuove sfaccettature ai suoi personaggi: nella parte del cattivo è perfettamente a suo agio, e riesce nel difficile compito di far odiare il suo personaggio. Del resto, queste sono vicende che lo spettatore conosce e il pubblico ha ben in mente le ripercussioni che il crac della Parmalat ebbe sui risparmiatori ignari e sull’economia stessa del paese. Per questo Il gioiellino fa arrabbiare, perché è dannatamente reale, è il racconto di ciò che è avvenuto e di ciò che potrebbe ripetersi, se non si pone un freno deciso alle condotte imprenditoriali troppo spregiudicate. E’ il racconto di un paese che vede compiersi sotto i suoi occhi ignari una serie indicibili di malefatte finanziarie, come spiega il film nel finale, dove i furbetti del quartierino alla fine finiscono in galera ma con il sorriso sornione di chi pensa di aver “comunque vissuto anni stupendi”.