Il generale Mori: «Ecco perché il Ros ha catturato Riina, e perché poi è finito sotto accusa»
Come hanno fatto i Ros, dopo 24 anni di latitanza, a catturare il 15 gennaio 1993 il “capo dei capi” Totò Riina? Perché lo scorso 2 dicembre, a Ballarò, il generale Mori (fondatore e numero uno del Ros per tutti gli anni ’90), parlando dei suoi incontri con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino ha spiegato che «non è stata una trattativa, è stato un baratto»? Oggi è lo stesso generale Mario Mori, per la prima volta, a rispondere a tutte le domande che ruotano intorno al processo sulla presunta trattativa con la Mafia, raccontando la sua versione dei fatti: lo fa in un video esclusivo per Lookout news, web tv e osservatorio su crisi mondiali, geopolitica e sicurezza, di cui Mori stesso è direttore scientifico.
Una lunga video intervista in puntate, di cui è appena stata pubblicata la prima parte, “Gli anni del Ros”, e in cui si cerca di rispondere a questi e altri interrogativi. Quali sono stati i rapporti tra il Ros e la magistratura? Perché il Ros è spesso finito al centro di ingarbugliati processi, che finora si sono sempre conclusi con l’assoluzione di Mori?
INNOVATORI. Per spiegarne le peculiarità, Mori ripercorre le origini del Ros, tracciando il panorama in cui il gruppo speciale dei carabinieri mosse i primi passi, soprattutto nella Palermo dei primi anni ’90, dove l’impero di Cosa Nostra sembrava invincibile. «Si pensò in questa fase di creare la struttura del Ros che si fondava essenzialmente su pochi principi – racconta il generale –. Il primo era la specializzazione eccentuata del personale, la seconda era la sintesi operativa del “Gruppo Dalla Chiesa”. Cioè al ricorso all’O.c.p., ovvero all’osservazione, al controllo e al pedinamento. Inizialmente trovammo il sostegno pressante, direi quasi entusiasta, da parte del dottor Falcone che io conobbi con gli ufficiali che erano con me in Sicilia, e con cui si ebbe un lungo scambio di idee. Falcone era un magistrato innovativo come forse lo è stato Dalla Chiesa nel campo delle forze di polizia. Ha innovato un sistema che si fondava sull’analisi minuta del fenomeno mafioso e nell’individuazione di quei soggetti che potevano essere attaccati ai fini di sgretolare la struttura. Giovanni Falcone fu colui che in maniera entusiasta sposò la causa del contrasto alla criminalità mafiosa non solo attraverso la ricerca del singolo latitante, che comunque sosteneva, ma anche attraverso operazioni che andassero a colpire il patrimonio economico delle mafie, forte del concetto che un latitante si può sostituire in Cosa Nostra, mentre la mafia i soldi che le vengono portati via non li può sostituire».
ANTI CLAMORE MEDIATICO. Anche per comprendere le origini dello scontro, che poi più volte si è ripetuto negli anni, tra parte della magistratura e alcuni uomini di punta del Ros, occorre secondo Mori cercare le tracce negli eventi dei primi anni ’90. Ricorda il generale: «Si formò un rapporto molto stretto con alcuni magistrati, e da subito ci fu la richiesta delle prestazioni del Ros da molte procure. In quel periodo di massimo fulgore noi eravamo meno di mille uomini, 934 per l’esattezza. Inoltre, per il sistema che usavamo, che non era “mordi e fuggi”, ma prevedeva che se individuavamo una persona ricercata la seguivamo per giorni o addirittura per mesi, non sempre potevamo dare ascolto a tutte le richieste. Purtroppo nella vita ciascuno spesso si sente al centro di tutto. Ogni magistrato riteneva di avere l’indagine più importante e chi riceveva un rifiuto si risentiva».
Quel risentimento, in molti casi, è stato la base dei problemi successivi: ma non l’unica causa. In quegli anni – gli stessi, va ricordato in cui Falcone veniva messo sotto accusa al Csm perché avrebbe “tenuto nei cassetti le carte” che avrebbero dovuto condurre a presunti arresti di personaggi importanti, accusa ovviamente poi mostratasi del tutto infondata – iniziava un diverso rapporto tra magistratura e stampa e si iniziava a comprendere che ogni singolo arresto di un personaggio di spicco, criminale o politico, avrebbe comportato i flash dei riflettori, un’immediata pubblicità e, perché no, la possibilità di avanzare nella carriera. Il metodo del Ros però andava esattamente all’opposto di questa esigenza di clamore mediatico.
DIETRO LA MANCATA PERQUISIZIONE DEL COVO. Spiega Mori: «Quando colpivamo un gruppo criminale, non volevamo assestargli un colpo praticamente definitivo, eliminare tutta la struttura organica, lasciandoci sempre un “filo” che ci consentisse di proseguire le indagini. È poco produttivo prendere un latitante se poi si tagliano anche tutte le conoscenze sul gruppo criminale cui appartiene. Il metodo che sostenevamo, che non volevamo barattare per nient’altro, io l’ho sempre sintetizzato con una battuta: “Non mi serve la gallina oggi, io voglio il pollaio appena possibile”».
Fu quel metodo, ad esempio, a spingere il Ros e la Procura di Palermo a proseguire nell’osservazione della casa di Riina (il “covo”) subito dopo l’arresto di Totò. Ed è stato riconoscendo proprio il valore di questo metodo che Mori e i suoi uomini sono stati assolti nel processo per la presunta “mancata perquisizione del covo”, intentato contro gli ufficiali da una parte un po’ “smemorata” di quella stessa procura di Palermo solo qualche anno dopo.
«NOI E IL NEMICO, E IL VUOTO». Nel video, Mori spiega anche quali furono i rapporti tra Ros e i servizi. Il video è impreziosito anche dalla testimonianza – rarissima davanti alle telecamere – degli uomini di Mori, e in particolare del Capitano Capitano Ultimo, protagonista dell’arresto di Riina e di moltissime altre operazioni di rilievo del Ros. Racconta Ultimo quei primi anni di “caccia” contro la mafia: «Quando di notte ero in servizio e mi trovavo a Corleone, a Bagheria, alla radio chiamavo: “Centrale, da Ultimo. Centrale, da Ultimo”. Non m’ha mai risposto nessuno. Né dei servizi, né di altre strutture. Ervamo noi e il nemico. E il vuoto».
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!