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Il delitto perfetto di Renzi. Così lo Stato depreda Regioni e Comuni per poter continuare a ingrassare

La morte della democrazia locale spiegata da Luca Antonini, presidente della Commissione federalismo e finanza pubblica, che snocciola dati «da fare accapponare la pelle»

Luigi Amicone
07/09/2015 - 1:00
Politica
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renzi-federalismo-delitto-perfetto-tempi-copertinaArticolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Come da copione, il nostro tosto e allegro leader Matteo Renzi si è lanciato nella promessa teatrale di un piano taglia-tasse di qui al 2018. Complimenti al prestigiatore. Nel frattempo, dal cilindro dei conti dello Stato che sembra far tesoretto della notizia contenuta in un articolo di Tempi del 18 aprile scorso («tra il 2013 e il 2014 il solo Lazio ha goduto di finanziamenti statali per oltre 5 miliardi euro per coprire i debiti non sanitari e di quasi 4 miliardi per i debiti in sanità; il Piemonte per 5 miliardi e la Campania per altri 4»), è saltata fuori l’ennesima sorpresa. Da 19 miliardi 300 milioni 847 mila e 23 centesimi. Di debiti.

A tanto infatti ammonterebbe il buco di bilancio delle regioni calcolato dalla Ragioneria dello Stato. “Buco” di tutte le regioni? Sì, tutte. Dalla voragine del Lazio che da solo contabilizza quasi 9 miliardi di rosso. Al poco meno di 1 miliardo dell’Emilia Romagna. C’è un’unica regione che non sconta il disastro che ha gettato nel panico il governo che ora cerca di correre ai ripari studiando una legge “tappabuchi”. La Lombardia di Roberto Maroni. Governatore da soli due anni e che, onore a Maroni, ha più volte riaffermato la continuità con i 18 anni di governo di Roberto Formigoni (al quale, detto per inciso, bisognerebbe fare tante scuse e un monumento visto il disastro che c’è nel resto del paese).

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Comunque sia, riepilogando, dopo aver bocciato il bilancio del Piemonte, la Corte dei Conti e la Corte Costituzionale adesso scoprono che “così fan tutti”. Cioè, scoprono che i già cospicui e discutibili “anticipi finanziari” (l’articolo 119 della Costituzione li vieterebbe) concessi dallo Stato per saldare i debiti contratti con i fornitori della Pa, sono serviti per pagare anche i debiti fuori bilancio e per gonfiare la capacità di spesa delle Regioni. Insomma, un ciclopico falso di bilancio. «Che però ha il suo perché», spiega Luca Antonini, ordinario di diritto costituzionale a Padova e presidente della Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale (Copaff) istituita nel 2009 in gran spolvero di professori, tecnici, guru dell’amministrazione e della finanza pubblica, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione. «Commissione che di fatto oggi non viene più nemmeno consultata», confessa Antonini.

E qui un pensiero ti sorprende. Ma come, Renzi twitta a perdifiato il “cambiamento” e non passa giorno che non si inventi un ingaggio “cambiamentista” di esperti “ggiovani” (tipo la recente squadra di supertecnici che vorrebbe insediare a Palazzo Chigi). E butta via un sancta sanctorum a costo zero (i membri del Copaff non percepiscono alcun compenso, incluso segreteria e gruppi di lavoro) che per la prima volta nella storia della Repubblica ci ha dimostrato l’urgenza di adottare il principio dei “costi standard” nelle spese delle amministrazioni (per correggere inefficienze e sprechi) e, tra il tanto altro, ci ha dato l’esatta fotografia della finanza pubblica italiana? (Sì, certo, magari disturbando i manovratori, rilevando la strana usanza delle amministrazioni: o di non avere bilanci, o di non averli in regola o di averli ciascuno secondo i propri comodi criteri contabili).

Ma per tornare a bomba. Il perché del buco ciclopico nelle Regioni dipende dalla legge merkeliana numero 247 del governo Letta. Perfetta sul piano della pura astrazione. Ma nei fatti rivelatasi insostenibile, visto che è stata rispettata solo dalla Lombardia («e così la Lombardia in pareggio di bilancio dal 2001 paga di nuovo per tutti» twitta Formigoni).

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E va bene, si cambi la legge 247 del governo Letta. Ma professore, come direbbe la buonanima di Giuseppe Bortolussi, il fondatore della Cgia di Mestre recentemente scomparso: dove li trovano i soldi governatori e sindaci dopo che negli ultimi cinque anni gli enti locali hanno subìto una riduzione dei trasferimenti dallo Stato centrale di poco superiore ai 25 miliardi di euro? Le sembra carino che lo Stato si dimostri sobrio e virtuoso – mi passi la volgarità – con il sedere delle amministrazioni locali?
Mi permetto innanzitutto precisarle i numeri. Perché se è vero che a partire dal governo Monti abbiamo assistito a un vero e proprio massacro della finanza locale e della democrazia locale, tra il 2008 e il 2015, come ci ha detto di recente la Corte dei Conti, la stretta per patto di stabilità ha pesato per 40 miliardi sui bilanci delle amministrazioni territoriali. E sono stati spesso tagli cosiddetti “lineari”, che non distinguono cioè tra spesa “buona” e spesa “cattiva”, tra amministrazioni virtuose e quelle dalle “mani bucate”, togliendo risorse a tutte, indistintamente. Ma poi ci sono stati anche i mancati trasferimenti compensativi da parte dello Stato che sono cresciuti a dismisura negli ultimi tre anni. In sintesi, tra il 2008 e il 2015, tra revisione della spesa e mancati trasferimenti, il governo di Roma ha sottratto agli enti territoriali qualcosa come 80 miliardi. Una cifra impressionante che, come diceva Bortolussi da lei giustamente citato, configura un “delitto perfetto” compiuto dallo Stato centrale. Dove trovano i soldi le Regioni e i Comuni? Semplice, scaricate dallo Stato agiscono sulla leva fiscale. Nella Relazione sulla finanza locale del 31 luglio scorso la Corte dei Conti – che, è bene precisarlo, davvero non è mai stata tenera con gli enti locali – ci dice (e siamo già a tre suoi pronunciamenti nel solo anno in corso dello stesso tenore): attenzione, siamo arrivati al limite, agli enti territoriali «è stato chiesto uno sforzo di risanamento non proporzionato alla entità delle loro risorse», e continuando così si mette a rischio «il corretto adempimento dei livelli essenziali delle prestazioni nonché delle prestazioni fondamentali inerenti ai diritti civili e sociali». La causa? «I ripetuti tagli alle risorse statali disposti dalle manovre finanziarie susseguitesi dal 2011». Più chiaro di così.

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A dirla tutta, professore, la relazione della Corte dei Conti dettaglia anche e circoscrive gli anni del boom delle tasse locali: è negli ultimi tre, 2011-2014, che sono cresciute paurosamente, + 22 per cento! In termini di media assoluta la pressione fiscale comunale media è passata da 505,5 euro a 618,4 euro pro capite. Con punte record di quasi 900 euro nelle grandi città con più di 250 mila abitanti e nei paesi sotto i 2 mila…
Stiamo attenti, nel Rapporto 2015 della Corte dei Conti sul coordinamento della finanza pubblica uscito nel giugno scorso c’è una precisazione che fa accapponare la pelle e che nessuno ha ripreso: si precisa, infatti, che l’aumento dell’imposizione locale è «stato il frutto di scelte operate dal governo centrale piuttosto che espressione dell’autonomia impositiva degli enti decentrati». Tutto questo mentre la spesa dello Stato centrale è continuata a crescere.

È la storiella della sobrietà dello Stato col portafogli dei cittadini dei Maroni e dei Pisapia… Ma andiamo avanti. “No taxation without representation” è il motto della democrazia liberale, “nessuna tassazione senza rappresentanza”. Il federalismo fiscale avrebbe dovuto rendere più trasparente il rapporto fra cittadini e fisco, facilitare le verifiche da parte dei contribuenti-elettori di come vengono spesi i loro soldi. Per poi saldare i conti al momento del voto. E invece…
E invece lo Stato ha affibbiato agli amministratori degli enti locali il ruolo di esattori delle tasse. Oltre il danno anche la beffa.

Qualcuno inizia a sospettare che, a modello del biennio mediatico-giudiziario ’92-93 che fece fuori la politica nazionale, il biennio 2012-2013 che azzerò le Regioni fu una operazione che nacque a Roma per affossare il federalismo e riposizionare lo Stato al centro. Dopo tutto alla Merkel non sembra dispiacere questo neostatalismo dell’uomo solo al comando. Altro che l’Italia dei mille campanili. Che ne pensa?
Lasciando perdere le dietrologie, penso che l’attuale presidente del Consiglio sia solo il più simpatico degli “apprendisti stregoni” del fisco che in questi ultimi anni hanno inventato il giochino di scaricare sugli enti locali la responsabilità di far quadrare i conti di uno Stato centrale che non ammette tagli e non intende ridimensionarsi. Tant’è che i lavori di Cottarelli sulla spending review sui ministeri centrali non solo sono rimasti lettera morta, ma nemmeno sono mai stati pubblicati. Si capisce, lo Stato non ha nessuna intenzione di dimagrire… Ma così facendo si è creato il caos. Uso coscientemente il termine “apprendisti stregoni”, perché l’Imu è stata cambiata quattro volte in due anni e con dieci decreti legge di contorno su aspetti secondari. Risultato? Appunto il caos fiscale. Siccome con questi continui cambiamenti i conti non tornavano più, si è data mano libera a ciascuno degli 8.000 comuni italiani, ognuno di questi ha potuto creare il proprio regime impositivo per rastrellare quelle risorse che lo Stato aveva tagliato in modo sproporzionato: così siamo arrivati a 200 mila aliquote e 9.700 regimi di detrazioni diverse. Ci sono comuni che “narrano” queste tasse con regolamenti di 400 pagine, con esenzioni per portatori di “disabilità superiore al 100 per cento” e con abbattimenti di aliquota per chi adotta un cane randagio. Insomma, un pasticcio colossale, come quello emblematico di una imposta che nonostante tutto questo continua a chiamarsi “unica”, la Iuc (imposta unica comunale) e che invece – anche questo è paradossale – è costituita da tre imposte: Imu, Tari e Tasi.

Dunque il federalismo è davvero fallito.
Direi piuttosto che non è neanche mai cominciato. A partire dal governo Monti il legislatore statale ha avuto un solo obiettivo, fare cassa sulle spalle delle amministrazioni territoriali. In questo modo lo Stato centrale, soprattutto in quest’ultimo periodo, ha massacrato la finanza locale e destituito la democrazia locale. Considerando che il municipalismo italiano è sempre stato il nostro punto di forza, non mi sembra uno scherzo da poco. La sussidiarietà è letteralmente naufragata.

In effetti, dopo che su input della Corte dei Conti la Consulta ha dichiarato incostituzionale il bilancio di assestamento 2013 del Piemonte, rischiano la bocciatura anche i bilanci delle altre Regioni.
Non quello della Lombardia, che in forza della sua eccellente amministrazione – la più bassa spesa per il personale e le migliori performance nei servizi –, nonostante sia probabilmente una delle Regioni più ostracizzate dallo Stato centrale (e quando dico Stato centrale penso ovviamente anche ai suoi terminali locali), ha in bilancio addirittura spese di investimento.

renzi-ansaE adesso Renzi promette di abolire di nuovo l’Imu.
È il colpo di grazia al federalismo. È senz’altro davvero urgentissimo abbassare la pressione fiscale in Italia, ma se si elimina l’unica fonte impositiva con la quale un elettore può valutare, in base al principio vedo-pago-voto, l’operato di un’amministrazione locale, salta il principio di responsabilità. Perché invece non si abolisce l’Imu sui capannoni industriali, il cui gettito non va al Comune ma allo Stato? O perché non si abbassa l’imposta sui redditi? Questa mi sembra proprio sciatteria politica.

E la vostra Commissione, istituita in pompa magna da una legge della Repubblica al fine di realizzare l’articolo 119 della Costituzione, neanche viene più consultata. Pasticcio su pasticcio torna a fischiare alle orecchie il vecchio adagio leghista “Roma ladrona”.
Nella relazione sul Federalismo fiscale del giugno 2010, la nostra Commissione denunciò l’“Albero storto” della finanza pubblica italiana. Mettevamo lì in evidenza, molto prima che lo facessero i giornali (che anzi hanno preso spunto proprio da quei lavori, dove hanno trovato i dati), tutte le anomalie della finanza locale: il disastro delle società partecipate e dei comuni holding, gli enormi sprechi nella sanità, i costi delle sedi all’estero, le spese abnormi per il personale. Ma oggi, a cinque anni da quella relazione, sappiamo che lo Stato centrale ha tolto complessivamente agli enti locali qualcosa come 80 miliardi. Cioè la spesa locale è stata quasi dimezzata, mentre la spesa centrale ha continuato ad aumentare. Oggi se dovessi riscrivere quel rapporto userei la metafora dell’Albero storto per descrivere non più la finanza locale, ma quella statale! È lì che si annidano i veri, enormi sprechi che, vedi caso Cottarelli, pare nessuno abbia sul serio l’intenzione di raddrizzare e, mi sia consentito, nemmeno di denunciare.

E intanto vengono meno i servizi e tracolla lo Stato sociale.
È così, purtroppo. Pensi alla sanità, che rappresenta circa l’80 per cento dei bilanci regionali. Con la Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana eravamo eccellenze mondiali. Ma se lo Stato continua a sottrarre risorse (e quest’anno altri 2,5 miliardi di tagli riguardano proprio la sanità) quale prospettiva abbiamo se non lo smantellamento della sanità pubblica, l’uscita del privato dal sistema di accreditamento col risultato che una Tac o un’operazione urgente potranno permettersela soltanto i ricchi, mentre l’italiano medio e specialmente i meno abbienti dovranno rimettersi in coda e attendere mesi per accedere ad analisi, visite e cure?

Ho come il sospetto che lei non sia stato tra quelli che al Meeting di Rimini hanno applaudito il premier.
Le faccio un altro esempio. Per la costruzione e il mantenimento delle strade le Province spendevano circa 2 miliardi e venivano pagate dai cittadini con le imposte sull’Rca auto e l’imposta di trascrizione. Adesso lo Stato ha quantificato il fabbisogno standard delle Province per le strade in 800 milioni. Ma mica ha ridotto quelle imposte provinciali: tutt’altro, la differenza di 1,2 miliardi le Province continuano a incassarla, ma la devono versare allo Stato. I cittadini continuano quindi a pagare imposte per due miliardi, le strade sono piene di buche e la vera funzione dei fabbisogni standard è stata completamente frustrata, perché era quella di permettere al cittadino di verificare come venivano spese le imposte, ma se queste non sono più tracciabili, il meccanismo non funziona più. Stessa cosa con le imposte comunali, quasi la metà finiscono a Roma. Ripeto, mentre lo Stato si fa bello per gli 80 euro infilati in busta paga, gli enti locali fanno gli esattori. È il gioco delle tre tavolette. Ma a pagare è sempre lo stesso Pantalone. Geniale.

Giunti a questo punto sono sicuro che il nostro caro leader schiaccerebbe il tasto pausa – tipo quello del «ventennio di berlusconismo e anche un po’ di antiberlusconismo» (ssst! non ha mica detto “e anche pochino pochino di incontrastato potere giudiziario”) – e le direbbe: “Professore, mi sa che lei è un gufo”.
Può darsi, gli risponderei, ma se sono un gufo vuol dire che almeno non sono sicuramente un allocco. Nello Stato ottocentesco, diceva Gobetti, il cittadino pagava le imposte bestemmiando lo Stato perché non sapeva come i suoi soldi venivano utilizzati. Oggi il cittadino italiano bestemmia Comuni e Regioni perché fatte 100 le imposte, vede servizi per 50. Tocqueville diceva che la democrazia comincia con la pubblicazione del bilancio fuori dal municipio. È questo che sta completamente saltando per ricentrare tutto sul nuovo Leviatano. Pardon, sono un gufo, sul nuovo Stato centralista condotto dal Principe illuminato e mecenate dei Medici.

@LuigiAmicone

Foto Renzi: Ansa

Tags: costi standardFederalismoimuluca antoniniMatteo Renzispending reviewspesa pubblicatasi
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