I lenti passi della Turchia. Intervista a mons. Padovese
Pubblichiamo l’intervista a mons. Luigi Padovese, assassinato il 3 giugno 2010, pubblicata sul numero 9 di Tempi (2007).
Monsignor Luigi Padovese, vicario apostolico dell’Anatolia (con sede a Iskenderun), è uno dei tre vescovi di rito latino che esistono in Turchia, essendo gli altri due quello dell’arcidiocesi di Smirne e quello del vicariato apostolico di Istanbul. Sotto la sua giurisdizione ecclesiastica ricade Trabzon, la città in cui fu ucciso don Andrea Santoro e dalla quale provengono anche gli assassini del giornalista Hrant Dink. Padre cappuccino da oltre 40 anni e vescovo da due e mezzo, monsignor Padovese ci ha concesso l’intervista che segue mentre era di passaggio a Milano, sua città natale.
Monsignor Padovese, cosa è cambiato in Turchia dopo la visita di Benedetto XVI?
Certamente è cambiato il clima a livello di opinione pubblica. La polemica che si era innescata con il discorso di Ratisbona era stata enfatizzata dalla stampa turca. La visita del Papa, il suo modo di presentarsi anche con gesti molto simbolici hanno fatto cambiare le opinioni in positivo. A livello di rapporti fra lo Stato e le Chiese, però, non notiamo ancora nessun cambiamento.
Continuano ad esserci problemi per quel che riguarda la restituzione delle proprietà delle Chiese?
Legherei la questione al riconoscimento delle minoranze religiose. Il trattato di Losanna del 1923 stabilisce che le proprietà ecclesiastiche che non sono più usate per la funzione a cui erano destinate possano essere confiscate. Molte proprietà sono state espropriate in base a questo principio, perché la riduzione numerica dei cristiani in tutta la Turchia ha reso inutilizzate certe proprietà. Noi non aspiriamo tanto ad una restituzione, e nemmeno ad un indennizzo, ma al riconoscimento di un diritto: il diritto all’esistenza, al riconoscimento ufficiale. Dopodiché, in tema di proprietà registriamo qualche passo avanti: nella mia città, Iskenderun, la chiesa siro-cattolica che era stata chiusa e trasformata in un cinema a luci rosse è ora sul punto di essere restituita alla Chiesa siro-cattolica.
Leggiamo che si sta discutendo una modifica dell’articolo 301 (“oltraggio all’identità turca”) del codice penale, in base al quale sono stati aperti tanti processi contro giornalisti ed intellettuali. Cambierà questo articolo?
Il problema non è il cambiamento dell’articolo, ma quello della mentalità: questa è la questione di fondo. Se il fenomeno del nazionalismo non si riduce, se non c’è una genuina accettazione del pluralismo in quanto espressione della democrazia, anche una riforma dell’articolo 301 non produrrà effetti. Al massimo un po’ più di libertà di espressione a livello dei media.
A proposito del prezzo della libertà di espressione nei media: chi ha ucciso Hrant Dink? E perché?
L’assassino di Hrant Dink viene dalla stessa città da cui viene l’assassino di don Andrea Santoro: Trabzon, che una volta si chiamava Trebisonda. Anche l’ambiente dal quale provengono è fondamentalmente lo stesso: il fanatismo nazionalista mescolato ad un filone religioso, cioè la salvaguardia dell’islam che coinciderebbe con la salvaguardia dell’identità nazionale. Il giornalista turco armeno, come anche don Andrea, avrebbero messo in pericolo, secondo gli assassini, questi valori. Cosa totalmente falsa, ma questo è il modo di vedere dei fanatici. Trabzon è parte della mia diocesi. In occasione del primo anniversario della morte di don Andrea sono intervenuto con un discorso di commemorazione che diceva anche: la città di Trebisonda è una città pulita, la gente è normale, però al suo interno ci sono ancora gruppi che esasperano il fatto del nazionalismo. Del resto tutti riconoscono che nel nord della Turchia il nazionalismo è molto caldo. Questo si spiega anche tenendo presente che è un ambiente abbastanza chiuso, abbastanza isolato dal resto del paese. È una regione più vicina alla Georgia che a Istanbul, una regione che vedeva presente una memoria greca che ci si è sforzati di spazzare via.
Il futuro politico della Turchia. Erdogan sarà il prossimo presidente della Turchia?
Non è ancora detto, perché le elezioni ci saranno a maggio e la Turchia è un paese dove il controllo dei militari è abbastanza forte. In fondo i cinque capi di Stato maggiore delle varie armi fanno parte del Consiglio di Stato. Dunque i giochi sono ancora aperti. Certo, se diventasse presidente il suo partito avrebbe mano libera non solo per i provvedimenti di competenza del parlamento, ma anche per quelli che spettano al presidente, e non so se l’opposizione accetterà che il partito islamista assuma tutto questo potere. Ma soprattutto non so se lo accetteranno i militari.
Che giudizio dà sul bilancio del governo dell’Akp, i cosiddetti “i-slamisti moderati”?
L’atteggiamento di fondo che mi pare di avere constatato è quello di una volontà di produrre reali aperture. Ma al tempo stesso anche la consapevolezza che il governo è condizionato. Si trova a dover giocare fra varie opposizioni all’interno e un atteggiamento di diffidenza all’esterno. Per queste ragioni i passi che vengono fatti sono molto piccoli. La volontà e gli annunci sono molto più grandi di quello che poi si può realizzare nei fatti. Io mi auguro che questi piccoli passi siano sinceri e possano portare a realizzare veramente qualcosa.
Non ci sono segni di un’islamizzazione dello Stato?
Cominciamo col dire che in Turchia non si può parlare di laicità in senso pieno. Il fatto che ci siano circa 90 mila persone pagate dallo Stato come muftì e addetti alle moschee, organizzate in una struttura statale, mentre agli aleviti, che pure sono musulmani ma di diversa tendenza, non spetta nulla di tutto questo, secondo me chiarisce che la Turchia non è uno Stato totalmente laico. Inoltre è una laicità che ha dovuto fare i conti con i cambiamenti politici di questi ultimi anni, con una ripresa dei partiti religiosi, i quali sono una componente fondamentale della vita politica turca. Ciò ha portato a rivedere il concetto di laicità.
Chi comanda davvero oggi in Turchia?
La verità è che esiste ancora la realtà di un doppio Stato. Per cui i tentativi di riforme che sono stati introdotti sino ad oggi devono fare i conti anche con quest’altra realtà che è presente e che gli osservatori definiscono di volta in volta “lo Stato sommerso” o “il secondo Stato”. Tuttavia io penso che sia importante dare credito a quello che è stato fatto sino ad oggi. Sono piccoli passi, ma rispetto al niente dei tempi passati è già qualcosa. Chi conosce la Turchia sa che non si può pretendere troppo in questo particolare momento storico.
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