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I giudici inglesi condannano R.S. a morire di fame e sete. Il malato è «un peso»

L'orrendo caso del polacco in stato di minima coscienza a Plymouth a cui sono stati ritirati i sostegni vitali. Varsavia e vescovi si battono per salvarlo

Caterina Giojelli
22/01/2021 - 3:00
Esteri
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Morirà di fame e di sete perché così ha deciso la giustizia britannica: macabro modo di reagire alla pandemia, quello del Regno Unito. Qui, dove nelle ultime 24 ore si è registrato un picco di decessi da coronavirus (1.820 morti in un giorno solo), da poco più di due mesi servizio sanitario e tribunali battagliano per mandare al creatore un uomo polacco di sessant’anni, ricoverato in stato di minima coscienza all’ospedale universitario di Plymouth. R.S. (queste le iniziali), giunto in Inghilterra molti anni fa, sposato e padre di tre figli, è finito in coma lo scorso 6 novembre: un attacco cardiaco lo ha lasciato senza ossigeno per 45 minuti. Una fatalità: sospendere «nel suo miglior interesse» ventilazione, alimentazione e idratazione l’unica cura prospettata dai medici di Plymouth, dall’Alta Corte britannica e oggi anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Perché, se i medici hanno chiarito che non è prossimo alla morte, che lo attendono almeno cinque anni e più di vita, se ha sempre dichiarato, da cattolico praticante, la sua ferma contrarietà all’eutanasia e nei casi tristemente famosi dei piccoli bambini inglesi ha manifestato duramente per il loro diritto ad essere curati e non soppressi, perché, se l’uomo reagisce come può a chi entra nella sua stanza, insomma, se l’uomo c’è, acciaccato, in cattiva salute eppure vivo?

VARSAVIA SI RIBELLA ALL’ALTA CORTE INGLESE

Quando il magistrato Yonko Grozevi della Corte europea dei diritti dell’uomo ha giudicato «inammissibile» il ricorso presentato da madre e sorella perché non venissero ritirati i sostegni vitali, interrotti la vigilia di Natale, quello di R.S. era già diventato un caso diplomatico: Zbignew Rau, ministro degli Esteri polacco ha contattato il suo omologo britannico, Dominic Raab, chiedendo il «ripristino urgente dei sostegni» e il rimpatrio del paziente. Varsavia ha approntato un aereo per trasferirlo nell’Ospedale clinico centrale del ministero dell’Interno, la Polonia ha segnalato alla Ue che il «diritto alla vita di R.S. era stato violato». Lo stesso presidente della Polonia Andrzej Duda ha valutato il caso e per ore il suo capo di Stato maggiore Krzysztof Szczerski ha discusso la questione lunedì scorso con l’ambasciatore britannico in Polonia, Anna Clunes: «È stata una conversazione difficile» ha spiegato, assicurando che ambasciatore e consoli polacchi si sono recati di persona a Plymouth. E non si è mosso solo il governo: il presidente della conferenza episcopale polacca, Stanisław Gądecki ha scritto all’arcivescovo Vincent Nichols, presidente della Conferenza episcopale cattolica di Inghilterra e Galles, chiedendogli di intervenire per salvare la vita di un uomo «condannato a morire di fame».

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UCCIDERLO PERCHÉ «POTREBBE VIVERE OLTRE CINQUE ANNI»

R.S. è stato staccato dai sondini due volte, la prima per due giorni, la seconda per cinque giorni: solo gli appelli di sua madre, sua sorella e del suo paese avevano costretto i medici a riattaccarlo ai sostegni in attesa dei verdetti. L’uomo si trovava ancora in coma, e non era passato nemmeno un mese dall’infarto, quando l’ospedale di Plymouth aveva disposto la prima volta la sospensione di ventilazione, alimentazione e idratazione «nel suo migliore interesse» in accordo con la moglie. Di tutt’altro avviso il resto della famiglia, a partire da madre e sorella appunto, convinte che mai R.S., fervente cattolico, avrebbe accettato una simile decisione. Il caso era finito in tribunale: è il 15 dicembre quando i giudici ribadiscono che è «nel migliore interesse di R.S. non ricevere cure salvavita, anche artificiali, ventilazione, nutrizione e fluidi. Morirà entro poche settimane». Ovviamente nessuno può vivere senza respirare per “poche settimane”, nel parere dei giudici era già dunque scontata la capacità dell’uomo di respirare autonomamente una volta staccata la ventilazione. Chiamata a ricostruire le volontà del paziente la Court of Protection ha confermato pochi giorni dopo il verdetto, eliminando tuttavia il riferimento alla ventilazione e invitando a ritirare solo acqua e cibo: se alimentato e idratato artificialmente R.S. potrebbe infatti vivere «per oltre cinque anni» sebbene nella migliore delle ipotesi «in uno stato di minima coscienza».

È CONTRARIO ALL’EUTANASIA MA «È UN PESO PER LA FAMIGLIA»

Eppure è la stessa Corte ad attestare che il paziente è un cattolico praticante, fortemente contrario ad aborto ed eutanasia, un uomo che non aveva mai fatto mistero di cosa pensava del ritiro dei supporti vitali a proposito delle vicende dei bambini come Alfie Evans o Charlie Gard. I giudici accertano tutte queste convinzioni e posizioni, tuttavia decidono di motivare la sentenza sulla base di una frase che un giorno R.S. rivolse alla moglie, «non avrebbe voluto sentirsi un peso se fosse stato gravemente malato». Una frase da tenere a mente, secondo la Corte non sarebbe «nel suo migliore interesse vivere in uno stato (di minima coscienza, ndr) che non gli fornisce la possibilità di ottenere alcun piacere e che è così gravoso per sua moglie e i suoi figli». È qui che madre e sorella, parallelamente al governo polacco, decidono di appellarsi alla Corte Suprema e alla Corte europea, tentandole tutte perché il sondino non venga ritirato, come stabilito da medici e giudici il 7 gennaio, cercando di fornire prove dei miglioramenti di R.S., di ottenere il suo trasferimento in patria presso realtà disposte ad occuparsi di pazienti come lui, di presentare l’opinione di medici in contrasto con quelli dell’Nhs inglese. Ma ogni richiesta e argomentazione è stata respinta. Respinta dalla Corte d’Appello anche la richiesta di poter fare nuovamente ricorso alla Corte europea. Di più, secondo la Corte, l’opinione di esperti della Chiesa cattolica non è da ritenersi appropriata nel caso di R.S.

I GIUDICI NON VOGLIONO IL PARERE DI «ESPERTI CATTOLICI»

Il 13 gennaio è stato nuovamente autorizzato il ritiro dei supporti vitali. Per la prima volta le convinzioni religiose di un paziente non contano nulla e viene negata alla Chiesa cattolica la possibilità di dare un contributo. Il 20 gennaio le autorità polacche ribadiscono l’offerta a prendersi cura a proprie spese di R.S. in patria: la clinica Budzik (La sveglia), specializzata in ricovero a lungo termine di pazienti in coma e stato vegetativo, si è detta pronta ad accogliere R.S. occupandosi del suo trasferimento. In serata anche la Conferenza episcopale inglese ha risposto agli appelli polacchi: il vescovo John Sherrington, ausiliare di Westminster, e il vescovo Mark O’Toole di Plymouth hanno scritto al ministro della Salute, ribadendo che idratazione e alimentazione artificiale non rappresentano un trattamento medico bensì «un livello fondamentale di cura» che deve essere dato «ogni qualvolta sia possibile, a meno che non si medicalmente indicato che sia un accanimento o che non riesca a raggiungere il suo scopo».

Perché tanto accanimento nei confronti di un uomo che non sta per morire e che in molti si sono offerti di curare, farsene carico, sollevando medici e moglie dal “peso” di R.S.? «Chi mai vorrebbe o dichiarerebbe di voler essere un peso per i propri cari?», ha scritto David Albert Jones, direttore dell’Anscombe Bioethics Center di Oxford, diffondendo il 12 gennaio una dura nota per denunciare che privare un uomo di cibo e acqua nonostante le sue manifeste convinzioni religiose, costituisce un precedente «molto preoccupante». Secondo il bioeticista quella frase riferita alla moglie non costituisce alcuna ragione per autorizzare la soppressione di un uomo in coma o in stato di minima coscienza. Ricorda che, al contrario dei giudici e di cosa pensi la maggior parte degli inglesi che non distinguono cure mediche e sostegni vitali, per i cattolici c’è una differenza enorme, «acqua e cibo sono un’opera di misericordia», tanto più nel caso di R.S, che non è prossimo alla morte: ritirarli non significa altro che «affamarlo e disidratarlo fino alla morte». E perché, prosegue Jones, una vita vissuta nell’insegnamento della Chiesa non rappresenterebbe una chiave interpretativa delle sue volontà? È «deplorevole» che il parere di esperti non possa venire preso in considerazione solo perché cattolici ma c’è una cosa, spiega il bioeticista, che rappresenta l’elemento più preoccupante di tutta la sentenza: la conferma, da parte della legge, che R.S. non è altro che un peso.

«LA LEGGE CONFERMA CHE I MALATI SONO UN PESO»

«La Corte considera le dichiarazioni sul non voler essere “un peso” per gli altri come una valida ragione per privarlo di cure e di sostentamento vitale. Questa concezione, al contrario, deve essere sfidata dalla legge. L’idea che coloro che hanno bisogno di ricevere cure siano un peso per chi le fornisce è molto pericolosa». L’effetto opprimente di questa idea sui disabili, esemplifica Jones, è ben spiegato in un aneddoto citato spesso dal bioeticista cattolico australiano Nicholas Tonti-Filippini:

«Per diversi anni, fino a quando non mi sono opposto, ho ricevuto dalla mia assicurazione sanitaria una lettera che sottolineava quanto costasse il mio piano sanitario. Tremavo all’idea di leggere la lettera e il ragionamento psicologico che sembrava averla motivata. Ogni anno mi è stato ricordato quanto sia un peso per la mia comunità. La paura di essere un peso rappresenta un grave rischio per la sopravvivenza di coloro che soffrono di malattie croniche».

Ed è esattamente in questa direzione che si stanno muovendo i giudici inglesi confermando le peggiori paure dei più fragili: chi ha bisogno di cure è un peso ed è nel suo migliore interesse levarlo di mezzo. Il fine è sempre lo stesso: introdurre l’eutanasia nel Regno Unito dalla porta sul retro.

Tags: alfie evansanscombe bioethics centercourt of protectionEutanasiaplymouthregno unitoUnione Europea
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