Cosa resta in piedi ad Haiti tra le macerie e il diluvio
Ad Haiti le macerie continuano a restituire cadaveri e disperati. 1.941 le vittime contate fino a ieri, 10.000 i feriti, decine di migliaia gli sfollati del sisma di magnitudo 7.2 che il 14 agosto ha sbriciolato in pochi minuti il sud-ovest del paese. Tra Les Cayes e Jérémie si scruta il cielo in tempesta, si implorano appena possibile aiuti e soccorsi via elicottero o aereo, perché a separare i sopravvissuti delle città (e quelli isolati sull’altipiano) dalle cure di pompieri, medici, dall’arrivo di farmaci, acqua, tende, viveri non ci sono di mezzo le strade smottate dal terremoto e dalle piogge torrenziali di Grace, ma le spietate bande armate che ammazzano come il terremoto.
Le bande armate bloccano gli aiuti
«Stanno impedendo agli aiuti di arrivare nelle zone più colpite: da mesi i banditi di Martissant hanno il controllo della strada che collega il traffico dalla capitale Port-au-Prince alle località squassate dal sisma. Pare stiano trattando con il governo: dopo aver negoziato una tregua con l’Onu per le prime squadre di emergenza si parla di una richiesta di centomila dollari per far passare i convogli umanitari. È gente spietata che opera nell’assoluta impunità da mesi in un crescendo di rapimenti, sparatorie, estorsioni, vendette, violenze culminate a giugno nei colpi di arma da fuoco contro l’ospedale nella baraccopoli di Medici senza frontiere, presenti da decenni nel paese. L’unico davvero funzionale e gratuito, costretto dalle gang alla chiusura», racconta a tempi.it suor Marcella Catozza, in missione ad Haiti dal 2000. «E ora il sisma, la lotta contro il tempo per trovare qualcuno ancora vivo sotto le macerie, le bidonville allagate, i villaggi di montagna completamente isolati, i collegamenti idrici interrotti, i presidi sanitari già stremati dal Covid che traboccano di feriti».
La mattina del sisma
Haiti è in balia del caos, delle piogge della tempesta Grace, dei mercenari e presto lo sarà degli sciacalli: tutti ricordiamo le sparatorie tra marines e saccheggiatori che brulicavano tra le rovine di Port-au-Prince e i corpi di centinaia di migliaia di vittime undici anni fa.
Questa volta il sisma ha risparmiato la capitale, a 150 chilometri dall’epicentro, eppure la scossa, nell’immensa baraccopoli di Waf Jeremie, nella missione Vilaj Italien e nella casa d’accoglienza Kay Pé Giuss tirate su da suor Marcella in seguito al terremoto del 2010 «l’abbiamo avvertita, fortissima. Le piscinette dei bambini si sono svuotate, l’acqua sbalzata via: grazie a Dio era mattina presto e i piccoli non erano in giro. Sono esplosi i pavimenti, il rumore delle piastrelle che scoppiavano faceva pensare a un attacco armato, sono caduti alcuni muri di cinta e delle tettoie. Non sappiamo ancora, in un momento così difficile e in cui scarseggiano i materiali, come e quando potremo riparare i danni».
Portare Cristo ad Haiti
Quanto alla paura, se è vero che il popolo di Haiti è abituato a soffrire, è anche vero che la scossa non ha tolto ai bambini di suor Marcella un briciolo di entusiasmo e voglia solo di tornare a scuola, «sperando che il 6 settembre possa davvero riaprire: l’anno scolastico ad Haiti va da sempre a singhiozzo tra sciagure e scontri armati». Perché i bambini di suor Marcella (Tempi vi aveva raccontato la loro storia qui) sono certi che l’unica cosa che resta in piedi quando tutto crolla è qualcuno che ti vuole bene.
Quando suor Marcella chiese sconvolta «ma cosa faremo, cosa?» al vescovo Joseph Serge Miot, che nel 2000 l’aveva inviata nella dura, miserabile, disperata e completamente chiusa ai bianchi periferia di Waf Jeremie, il vescovo le aveva risposto semplicemente: «Porterete Cristo e la Chiesa». Eccola, la differenza tra il “fare” ed “essere presenza” tra gente che allora come oggi pareva priva di storia e di una vita futura immaginabile tra catastrofi e sciagure continue. La presenza generò in fretta operosità, i bimbi impararono a rimettere in moto l’io: altro che passivi destinatari di carità e aiuti umanitari. E impararono a ricominciare dopo ogni sisma, uragano, malattia, morte, omicidio.
Machete, cadaveri e piastrelle
«Perdere la speranza e non riuscire a ricominciare ogni volta sarebbe come andare contro la Resurrezione di Cristo e affermare che la morte è l’ultima parola su di noi. Il punto è la fede: crediamo veramente di essere amati anche nel susseguirsi delle tragedie?». Ad Haiti Marcella ha affrontato capibanda, suturato ferite da machete, cercato nella melma bambini dispersi durante un tifone, salvato dalle piaghe e dalle formiche neonati avvinghiati al cadavere putrefatto della mamma abbandonata nelle tendopoli dei terremotati.
«Ma qui si è sudato anche per ogni singola piastrella posata: ho sudato per trovare soldi, materiali, manodopera, io stessa ho piastrellato interi corridoi, ma allora avevo 40 anni e mi tremano le gambe all’idea di ricominciare a quasi 60. Eppure è questo che ci aspetta: ci aspetta di diventare più fermi nella fede, nella speranza e portare a chi ci è attorno questa fermezza. Ce lo ricorda ogni singola piastrella scoppiata».
Il ricatto del capobanda
Marcella è rientrata ad Haiti a maggio, insieme ai bambini “rimpatriati” dall’Italia dopo due anni di studi e di “rinascita” straordinaria a Casa Lelia a Cannara, Assisi. E non è stato un rientro facile: «La sera stessa siamo stati “visitati” dal capobanda che ci ha chiesto 25 mila dollari al mese per “lasciare in pace” la missione (più volte i gangster armati fino ai denti e brutali fino a compiere orrendi atti di cannibalismo avevano saccheggiato la Kay Pe’ Giuss, ndr)».
Insieme alla folle richiesta del pizzo suor Marcella racconta di aver trovato «ancora più miseria, solitudine, devastazione, un paese che annaspa e non sa dove andare. La gente ha fame, è sola, non ha accesso alle cure mediche, i bambini non hanno accesso all’educazione, non abbiamo accesso all’acqua potabile. Non c’è corrente, carburante, non c’è sicurezza. La mattina gli educatori arrivano in lacrime raccontando che durante la notte le bande armate hanno fatto irruzione nelle loro case e nei loro villaggi per prendere i figli maschi, le madri si prostrano a terra implorando di risparmiare i propri bambini. Ci sono attacchi, scontri a fuoco, cadaveri in continuazione. Ma a sconvolgerci è che ad eccezione del Papa, Haiti non interessi a nessuno. Fa notizia quando il terremoto divora la sua terra, ma le vittime di Haiti si contano a migliaia, ogni singolo giorno, in un paese dove quasi sette milioni di persone, sopravvivono ammassate come bestie in condizioni disumane. E la situazione degenera ad ogni ora».
Quando tutto crolla
Non è stato nemmeno facile spiegare ai bambini perché interrompere la scuola in Italia. Il ministero degli Esteri non accetta il progetto iniziato ad Assisi e non concede ai bambini i visti di studio. La legge dice infatti che sotto i 14 anni non si può venire in Italia a studiare; non si osa creare “un precedente” e nemmeno aprire la strada a qualcosa di nuovo (qualcosa che per due anni ha radunato a Cannara famiglie, insegnanti, volontari, autorità locali, tutti al seguito dell’allegra brigata di Haiti. Fino all’intervento del Tribunale di Perugia e al “rimpatrio” dei bambini). Qualcosa che i bambini hanno portato con sé e che resta in piedi quando tutto crolla.
Aiutare chi aiuta Haiti
Quando cioè noi altri ci ricordiamo dell’esistenza di Haiti e vogliamo fare qualcosa: «Ora i prezzi lieviteranno come pane al sole, quello che si può fare è campagne di raccolta per aiutare chi sta aiutando. Non ci sono solo le grandi organizzazioni, con relativi grandi apparati da mantenere, ma tanti missionari in prima linea che impegnano ogni offerta direttamente in loco. Le vie sono tante, ognuno trovi la sua per aiutare Haiti a ricominciare».
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