Il concetto di “guerra giusta” è molto antico nei Romani, essi l’hanno teorizzata più dei Greci e addirittura come bellum iustum ac pium nella formula più antica. Pium, “pio”, cioè, non soltanto secondo il diritto umano, lo ius, ma addirittura secondo il diritto divino, il fas. Questa è la guerra che si deve fare, pur ammettendo che la guerra è un male. Nessuno tra i Romani contesta che la guerra sia un male, al punto che lo stesso “trionfo” sembra essere stato alle origini un rito espiatorio: il passare sotto l’arco, sotto il giogo, è una sorta di espiazione del sangue versato. Una caratteristica del bellum iustum è che si concede al nemico un tempo ragionevole di ripensamento e di possibile trattativa, ponendo un intervallo tra la dichiarazione di guerra con l’ultimatum, in cui si richiedono le cose – repetere res è la formula e si mandano i sacerdoti feziali a repetere res – e il momento dell’eventuale passaggio all’azione militare. Fra il momento della dichiarazione di una guerra e quello di inizio delle ostilità devono passare in età arcaica trentatrè giorni, il tempo dato al nemico per trattare. C’è quindi la preoccupazione di concedere una via di uscita al nemico, l’attenzione a non cedere alla reazione immediata, all’ira, al furore.
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
Codice ISSN
online 2499-4308 | cartaceo 2037-1241
Direttore responsabile
Emanuele Boffi