Solo la pressione americana (e Giovanni Paolo II, non a caso visitato dall’ambasciatrice Usa Maddaleine Albright) potrà evitare che il prossimo 13 settembre Yasser Arafat proclami unilateralmente la nascita dello Stato Palestinese.
Il problema è che Clinton è allo scadere del suo mandato presidenziale, mentre il leader palestinese è semplicemente con le spalle al muro. A complicare il negoziato non è stato solo il mancato accordo su Gerusalemme, sulla quale Arafat sa bene che non otterrà mai da Israele (che ha proclamato la città santa “capitale eterna e indivisibile” dello Stato ebraico) la rinuncia alla sovranità (mentre ci sono tutte le condizioni per negoziare uno “statuto giuridico internazionale speciale” che consenta libertà religiosa per tutti e concertata suddivisione dell’autorità politica).
Il problema sono i “partiti religiosi”, islamici ed ebraici (tra i quali – sembrerà paradossale ma è così – è documentata l’esistenza di stretti collegamenti politici e strategici – il caso della moschea di Nazareth e il voto di scambio richiesto e ottenuto dal partito religioso ebraico Shas alla popolazione arabo-musulmana in Israele nelle politiche dello scorso anno, insegnano – ), che non aspettano altro che la caduta di Barak e la più o meno naturale dipartita dell’anziano e grande leader palestinese che riconobbe Israele e avviò il processo di pace con il compianto leader laburista Itzhak Rabin.
D’altra parte, la fragilità della sua vecchia ledership nazionalista (e il precario stato di salute dello stesso fondatore dell’Olp) non consente più ad Arafat né di controllare i suoi oppositori interni, né, tanto meno, di continuare a giocare la partita che gli israeliani hanno ufficialmente – ma non nei fatti, costretti come sono a subire la pressione dei coloni – smesso di giocare col metodo del “prendere tempo”.
Dopo il fallimento di Camp David e la ripresa di negoziati solo bilaterali tra israeliani e palestinesi, succederà qualcosa nelle prossime settimane in Israele e nei territori sotto il controllo dell’Autorità palestinese. Speriamo non gravi fatti di sangue, ma certamente ci saranno turbolenze in tutta la Palestina. Comunque sia, gli Stati Uniti hanno il difficile e fondamentale compito di impedire qualsiasi fuga a ritroso, perché realismo e ragione hanno chiaramente indicato in questi anni qual è l’unica via d’uscita dalla storica confrontazione armata tra i due popoli. E’ la parola d’ordine della maggioranza degli israeliani: “pace in cambio dei territori”. Di qui è partito il processo negoziale passato da Madrid, Oslo e Camp David. E qui tornerà, presumibilmete dopo un periodo di minaccioso stallo armato (che potrebbe durare fino a novembre), all’indomani della elezione di Bush o di Al Gore, quando la prima patata bollente per il neoincoronato tutore dell’ordine mondiale sarà di nuovo la crisi mediorientale. Zeev Sternhell, vecchio intellettuale socialista e sionista israeliano, un giorno ci espresse il suo timore che per convincere i coloni religiosi ebrei a lasciare le terre palestinesi fosse necessario un intervento armato dello stesso esercito israeliano. Sì, il nemico numero uno della pace resta la religione utilizzata come instrumentum regni e cemento di comunità dove Dio è stato ridotto al proclama “sangue e terra”. Per questo è proprio il caso di sperare nella tenuta del governo di Ehud Barak. E di pregare per il padre della patria palestinese, Yasser Arafat.