«Sempre più giovani vogliono imparare “facendo”. Non costringiamoli a scegliere il liceo a tutti i costi»

Di Matteo Rigamonti
02 Giugno 2014
Uno studente su due, finite le medie, si iscrive al liceo. Ma «c'è poca attenzione alla dimensione vocazionale nella scelta del proprio percorso di studi». Intervista a Dario Nicoli (Università Cattolica)

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Presto in Italia ci saranno «più cuochi che ragionieri». Così il Corriere della Sera ha commentato i dati pubblicati dal servizio statistico del ministero dell’Istruzione relativi alle iscrizioni alle superiori per il prossimo anno scolastico. Ciò che è emerso è che a settembre uno studente su dieci avrà scelto l’alberghiero. Che, con i suoi circa 50 mila iscritti (il 9,3 per cento del totale), sarà il secondo indirizzo preferito dagli studenti italiani dopo il liceo scientifico e supererà, per la prima volta, il numero degli aspiranti ragionieri (scesi all’8,6 per cento).
Tempi.it ha chiesto a Dario Nicoli, docente di Sociologia economica e dell’organizzazione dell’Università Cattolica, di interpretare questi dati, analizzando le tendenze in atto e le problematiche connesse a un’offerta formativa nella scuola superiore ancora «lontana dall’equilibrio europeo», perché troppo «sbilanciata» sui licei. Fatto piuttosto grave se si considera che, come conferma Nicoli, in questo particolare momento, «complice la crisi, chi meno studia, prima trova lavoro».
Intanto, però, su un totale di 537.242 studenti iscritti al primo anno delle superiori per l’anno scolastico 2014-2015, sono 267.534 quelli che hanno scelto il liceo (di cui 122.140 lo scientifico), pari al 49,8 per cento del totale, in aumento dello 0,9 per cento rispetto al 2013-2014. Mentre poco più di 165 mila ragazzi hanno scelto un istituto tecnico (il 30,8 per cento del totale, in calo dello 0,4 per cento) e 104 mila un professionale (il 19,4 per cento, in calo dello 0,5 sul 2013-2014), dove quasi la metà degli iscritti hanno optato, appunto, per l’alberghiero.

Professor Nicoli, sono troppi in Italia i ragazzi che hanno scelto il liceo?
È difficile prevedere quanti e quali saranno gli sbocchi occupazionali dei liceali di oggi quando termineranno l’università tra dieci anni. Dipenderà molto da che tipo di formazione avranno ricevuto sia al liceo sia all’università, da cosa avranno imparato e da cosa gli riserverà in futuro il mercato del lavoro. L’unica evidenza che abbiamo adesso è che il numero degli studenti che hanno scelto il liceo è molto superiore rispetto a quello di chi ha preferito un istituto tecnico o professionale. Se volessimo raggiungere l’equilibrio europeo, ci vorrebbero 10 punti percentuali in più di iscritti ai professionali e 4,5 ai tecnici.

Perché c’è questa preferenza per il liceo?
Nell’immaginario delle famiglie italiane il liceo, soprattutto lo scientifico, rappresenta la scuola più fruibile, perché, in un certo senso, permette ai ragazzi di posticipare le decisioni. Si pensa che il liceo consenta ai ragazzi di andare avanti a studiare senza troppe pressioni, di farsi una buona cultura generale, specie con riferimento alla sua componente scientifica, per poi, ma solo più avanti, decidere cosa fare “da grandi”. A ciò si aggiunga il negativo influsso esercitato per anni da una non troppo corretta impostazione dell’orientamento scolastico alle scuole medie.

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Abbiamo sbagliato a suggerire ai nostri ragazzi di andare al liceo?
No, non è questo il problema. Il fatto è, però, che per decenni gli istituti hanno impostato il discorso sull’orientamento scolastico quasi esclusivamente sulla base della gerarchia delle valutazioni, dei voti in classe per intenderci. In pratica, a chi prendeva voti alti si suggeriva automaticamente di andare al liceo: scientifico nella maggior parte dei casi o classico per chi aveva voti altissimi, come capita spesso a tante ragazze (e non è un caso se il 68 per cento degli alunni dei licei è rappresentato da femmine). Per chi, invece, aveva voti di medio livello c’erano gli istituti tecnici e per chi aveva voti bassi o bassissimi non rimaneva che la scelta obbligata della formazione professionale. Ciò che è spesso mancato in una simile impostazione è l’attenzione alla dimensione vocazionale nella scelta del proprio percorso di studi.

Una dimensione che però è difficile da valutare.
È vero. Non esiste una ricetta per valutare con assoluta certezza la dimensione vocazionale nelle scelte di un singolo alunno; la decisione, poi, spetta sempre alla persona, non certo all’istituto. Ma ci sono delle buone pratiche che potrebbero aiutare molto nel compiere questa valutazione, ampliando i fattori a disposizione del ragazzo nella scelta. Per esempio, tante scuole hanno cominciato a fare orientamento attivo attraverso laboratori sia per le materie culturali, come può essere l’italiano, sia per quelle scientifiche, come la matematica, sia per iniziare a sperimentare eventuali forme di manualità o particolari inclinazioni a certi tipi di mestieri. Perché è importante che una scuola sappia sempre ricondurre gli insegnamenti e i saperi al contesto e alle circostanze della realtà che stanno intorno ai ragazzi. Si tratti del tema di italiano, di un calcolo matematico, piuttosto che di qualsiasi altra materia.

Perché, oggi, è così importante far cogliere ad uno studente il nesso tra ciò che studia e la realtà?
Perché i nostri ragazzi vivono nell’epoca dell’iper-realtà: sono sempre connessi e in qualsiasi momento possono distrarsi, forse più di un tempo, pensando all’aperitivo piuttosto che al prossimo acquisto che vorrebbero fare o a qualsiasi altra cosa gli passi per la mente. Ciò li rende meno inclini all’apprendimento formale, che rischiano di vedere come un po’ troppo “astratto”. Hanno più bisogno, dunque, di essere messi in rapporto con la realtà. Hanno bisogno di realtà e tutti noi dobbiamo fare in modo che questa esigenza si illumini, si accenda in loro. Le scuole, per esempio, dovrebbero fare tutto ciò che è in loro possesso per aprirsi al territorio e al contesto che hanno intorno. In questo senso, ben vengano tutte quelle attività, come per esempio i laboratori, che l’autonomia scolastica concede loro, e tutto ciò che può far conoscere più da vicino gli istituti tecnici o professionali e i percorsi di alternanza tra scuola e lavoro.

Lei crede che il boom degli ultimi anni all’alberghiero si spieghi anche per il successo di programmi come Masterchef?
Certamente il bombardamento mediatico e il prestigio che ha assunto la cucina in questi anni, grazie anche alla televisione, non hanno eguali. Il potere dei media è enorme nell’influenzare le scelte. Ma francamente non ci vedo solo questo. Infatti, insieme all’alberghiero – che, ricordiamolo, qualifica anche per la sala e non insegna soltanto a fare il cuoco – è cresciuta anche la domanda di agraria, chimica e meccanica. A conferma del fatto che i nostri giovani chiedono sempre più di imparare “facendo”, vogliono cioè apprendere capacità reali, concrete, spendibili sul mercato del lavoro. Credo che in questo senso debba essere letta anche la predilezione, da parte di alcuni futuri liceali, per il liceo scientifico tecnologico, il liceo linguistico o il liceo sportivo.

@rigaz1

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21 commenti

  1. Cisco

    Il problema non sono i lavori manuali, ma che tipo di lavori manuali. Un conto è puntare sull’eccellenza, per esempio dove noi italiani siamo leader, come la gastronomia o l’artigianato orafo (il primo che mi viene in mente). Altro è puntare a fare il muratore, mestiere dignitoso ma che con tutta evidenza non è frutto (salvo rarissimi casi) di una reale vocazione, bensì di uno stato di necessità.

  2. Davide

    Quando hanno riformato la scuola rendendola obblifgatoria fino ai 15 anni (sacrosanto), avrebbero dovuto posticipare a quell’età anche la scelta dell’indirizzo scolastico. Oggi invece i ragazzini di 13-14 anni (12-13, in realtà, perchè la scelta la si fa l’anno precedente a quello di uscita), sono costretti a una scelta troppo importante quando ancora non sono in grado.

  3. Excelsior

    Bah…

    Secondo me il problema vero e proprio è il nostro sistema educativo antiquato e decadente, progettato per un’epoca diversa dalla nostra e ormai non più sostenibile.

    1. EquesFidus

      La verità è che il sistema scolastico italiano era il migliore del mondo, ed ancora oggi nonostante tutti i vari tentativi di affossamento da parte dei governi (indipendentemente dallo schieramento politico) gode di grande credito a livello mondiale. Purtroppo, oltre al problema dei finanziamenti e delle attività extrascolastiche (oltre agli esami e certificazioni varie) si ha quello della mentalità della gente, per cui essere formati per un lavoro manuale è da minorati e da gente che non combinerà niente nella vita mentre esser laureati è l’esatto opposto, quando la realtà non è affatto così.

      1. Shiva101

        Il tentativo di affossamento arriva da chi come voi succhia soldi pubblici assecondati dai governi Berlusconi e talvolta anche di sinistra, che TAGLIANO i fondi per la scuola pubblica e destinano sempre piu soldi alle scuole private in prevalenza cattoliche.

        Prima che di ingegneri, fornai o muratori abbiamo bisogno di UOMINI e questi si formano attraverso la maturazione di una coscienza CRITICA che solo il liceo, per la sua eterogeneita di studi, puo fornire, e che in eta avanzata non sara piu possibile acquisire.

  4. erpersico

    Dite quello che volete ma e’ meglio svenarsi per vedere figli medici ingegneri econpmisti fisici e matematici andate voi all alberghiero

    1. EquesFidus

      Mi ricorda il discorso di un comunista (per davvero, di quelli alla Ernesto Guevara e da tesseramento al partito) che, da bravo borghesuccio, si lamentava che la figlia voleva fare la commessa perché non aveva voglia di fare l’università.
      Per me certi discorsi sono incomprensibili, se mia figlia dovesse dirmi che vuole andare a lavorare e non proseguire gli studi le chiederei solo due cose: se è un lavoro dignitoso (ché se mi dice che vuole andare a fare la prostituta chiaramente qualcosa da obiettare ce l’ho) e se è davvero sicura. Questi ragionamenti sono proprio quelli che ho esposto prima e che non trovano riscontro con la realtà: purtroppo, non possiamo essere tutti medici, ingegneri, economisti, fisici e matematici (ma anche geologi, biologi, letterati, filosofi ecc…), anzi non possiamo essere neppure la maggior parte. E non è un discorso di svenarsi ma di essere concreti, e di considerare che il lavoro manuale non è più infame o meno redditizio del lavoro intellettuale.

      1. erpersico

        infatti non intendevo tutti intendebvo i miei figli

  5. filomena

    Non sono d’accordo che l’Università non contribuisca ad approndire temi legati anche alla crescita individuale delle persone. Chiariscono subito che il mio non vuole essere un sottovalutare il lavoro manuale che é necessario ma non possiamo dividere le persone in gruppi che per tutta la loro vita faranno solo questo tipo di attività. Nella mia vita ho cominciato dal basso ma é sempre stato un mio obiettivo arrivare all’istruzione più elevata e credo che un minimo di ambizione deve essere consentito a tutti. Una delle leve per esempio secondo me, é agevolare i percorsi di studi dei lavoratori perché questo offre la possibilità di motivare le persone e renderle più critiche anche mettendosi in discussione.

    1. EquesFidus

      Purtroppo, le cose non stanno così. Lo scopo dell’università è dare una preparazione in determinati ambiti, ambiti che spesso c’entrano poco col lavoro manuale. Non sto certamente dicendo che uno deve fare un determinato lavoro a vita (anzi, mi sembra di averlo bene esplicitato anche prima) o non deve avere ambizioni, solo che dobbiamo metterci nell’ordine d’idee che la nostra società può supportare solo un numero limitato di laureati o laureandi; non così con altri campi occupazionali. Voglio dire, chiunque ha bisogno di becchini, panettieri e così via, non così per molti altri ambiti per cui bastano 50-60 laureati per città o poco più. Anche perché, nonostante tutto, o ci si mette in proprio (ma si deve avere un capitale alle proprie spalle, cosa non semplice da trovare), cosa in certi contesti praticamente impossibile, o si deve fare i conti con il mercato del lavoro. E lo Stato, che finanzia l’istruzione (totalmente quella pubblica e parzialmente quella paritaria), un minimo di tornaconto lo vuole avere in quello per cui ti ha finanziato. Pertanto, ben vengano i corsi a numero chiuso, anzi ti dirò di più, io abbasserei drasticamente le tasse universitarie (cosicché sia accessibile a tutti) ma farei una preselezione ed una selezione in corso molto stringente e per tutte le facoltà, in modo che solo chi ha voglia di fare e ha determinate attitudini possa andare avanti; ben vengano anche i corsi di orientamento, e ben vengano anche diplomi e scuole di specializzazione post-licenza di scuola media superiore.

      1. filomena

        Capisco il tuo ragionamento se la formazione universitaria viene legata unicamente all’inserimento occupazionale. Io credo però che se vogliamo formare persone dalla mente aperta l’università gioca un ruolo importante e lo stato dovrebbe farsi carico di formare i suoi cittadini.
        Dopodiché si può dire che oggi siamo in crisi e i soldi non ci sono ma il mio era un discorso di principio che vale sempre.

        1. EquesFidus

          Purtroppo non si può slegare l’università dal mercato del lavoro, anzi tutti i tentativi di farlo hanno portato alla situazione odierna.
          Anche il mio è un discorso di principio, solo che è piuttosto realista.

  6. filomena

    Non bisogna secondo me confondere le necessità pratiche legate alla sussistenza materiale dal livello di istruzione che ha il compito di aprire la mente. Si possono anche svolgere lavori manuali, magari temporaneamente, come giustamente accenna i anche tu, però non dobbiamo precluderci la conoscenza che ci permette di giudicare in modo critico la realtà che ci circonda e questo lo si fa innalzando la cultura che rende l’uomo cittadino libero e consapevol anche di scegliere come vivere la propria vita.

    1. EquesFidus

      Ma qui nessuno sta contestando la necessità dell’educazione scolastica, soltanto che un conto è questa ed un conto un percorso universitario. Perché se pensi che lo scopo dell’università sia quello di formare le coscienze e non di dare competenze in determinati ambiti sei fuori strada. Credo che nessuno possa sostenere che l’istruzione e la carriera accademica siano la stessa cosa, anzi non si identificano quasi mai: un panettiere può benissimo aver finito brillantemente l’ITI ma non aver voluto fare l’università. Anche perché, ricordiamoci che l’istruzione in generale ha un costo e quella universitaria lo ha particolarmente alto, e formare valanghe di persone che dovranno andare all’estero o fare altri mestieri rispetto a quello per cui non sono state formate non ripaga l’investimento da parte dello Stato; molto meglio garantire dei percorsi di crescita per le scuole primarie e secondarie diversificati ma di pari dignità e livello, per poi fare una buona selezione a livello universitario, basata sulle reali necessità del mondo del lavoro.

  7. filomena

    Aggiungo un piccolo particolare: l’Italia è uno dei paesi con meno laureati. Se vogliamo confrontarci con il resto dell’Europa dobbiamo elevare l’istruzione media.

    1. EquesFidus

      E infatti anche all’estero sono messi piuttosto male e costretti ad importare lavoratori; ciò nasce dal fatto che abbiamo, per decenni, snobbato i lavori manuali preferendo quelli intellettuali. Purtroppo, non è così: se dell’orafo, del fornaio, del fabbro, dell’agricoltore, del pastore, del muratore, dell’idraulico c’è sempre bisogno (perché, nonostante tutto il delirio ipertecnologico in cui l’umanità sta piombando e di cui quella stoltezza dei GoogleGlass è solo l’esempio di punta, l’uomo ha sempre bisogno di mangiare, riparare e costruire le proprie abitazioni e non solo) non è così per molte altre professioni, per cui uno su mille o uno su diecimila va benissimo; penso per esempio al classico laureato in lettere e filosofia, per cui ci saranno una cinquantina di posti di lavoro (tendenzialmente tutti occupati), includendo anche le posizioni di insegnamento a medie e licei, in una città di media grandezza. Purtroppo, non possiamo diventare tutti astronauti, cartografi, geologi, fisici, ingegneri, astronomi, letterati, biologi: non è proprio umanamente possibile, e si trova lavoro solo a livello europeo (e solo perché l’università italiana è, nonostante tutto, molto accreditata all’estero e perché le possibilità, a continentale, ovviamente si moltiplicano rispetto alla scala nazionale) o quasi. Ci siamo messi in testa che tutti potessero essere laureati, e che tutti i laureati potessero trovare lavoro, ma non è vero e lo dico da membro di una facoltà “inutile” (e che, infatti, già si è convinto di dover fare, un giorno, tutt’altro lavoro rispetto a cui ha studiato, almeno temporaneamente); lo vedo nei tassi di abbandono al primo anno, lo vedo in gente che fa l’università per parcheggiarsi qualche anno senza dover fare nulla o quasi e campare sulle spalle dei genitori, lo vedo nella relativa scarità di offerta lavorativa anche per molte facoltà gettonatissime (ma che, infatti, hanno introdotto il numero chiuso proprio per tutelarsi e tutelare il mercato del lavoro, che non può sopportare certe folle, e follie, oceaniche determinate dall’odore dei soldi più che da una reale passione). Dispiace dirlo ma è così, e purtroppo si collega al fatto che l’uomo del XXI secolo, oltre che ipertecnologico, è diventato pigro, indolente e privo di ideali concreti (quali sposarsi e metter su famiglia, pensare la vita in più di due insomma e spezzarsi la schiena per amore dei propri cari), per cui il solo pensiero di lavorare 8 ore al giorno, magari lontano da casa e facendo un lavoro manuale, fa gelare il sangue nelle vene. Salvo poi lagnarsi quando ci sono i clandestini che fanno detti lavori, o quando anche lavori come l’orafo o il panettiere vengono sostenuti da manovalanza dell’Est europeo a cui, guarda caso, non pare vero di impegnarsi in certe attività redditizie e snobbatissime dagli italiani. Questa è l’ennesima colpa dell’ideologia sessantottina, per cui il lavoro manuale è osceno e sempre inferiore rispetto a quello manuale, e questa sarà l’ennesima colpa di cui sarà chiamata a rispondere prima o poi.

      1. Franceschiello

        Concordo con te EquesFidus, tuttavia io non darei tutte le colpe al sessantottismo.
        Non dimentichiamo infatti che la cultura italiana ha sempre privilegiato l’ambito umanistico a dispetto dell’ambito tecnico-scientifico: Benedetto Croce arrivò a dire che la scienza non è altro che un libro di ricette di cucina…

        1. EquesFidus

          Più ancora che l’ambito scientifico-tecnico direi proprio quello intellettuale: infatti, nonostante la ricchissima tradizione nostrana, orafi, armaioli e fabbri sono sempre meno. Questo perché il lavoro manuale in sé è visto come automaticamente inferiore a quello di docente, di ricercatore o comunque sia non strettamente legato alla pratica. Sebbene ciò sia da ricercare sicuramente nell’ammirazione (ed invidia) che provava il nostro mondo contadino e la piccola borghesia nel confronto degli eruditi e dei professori, appartenenti a classi sociali più elevate e ricche, ciò non toglie che questo fenomeno si sia acuito con il ’68 e la sua contestazione studentesca, che ha creato una stigmatizzazione sociale verso coloro che si procurano il pane con le proprie mani (spesso visti, a torto, come dei minorati o dei poco acculturati) e ha convinto i giovani stessi che si può essere tutti laureati in qualsiasi materia ché tanto il mondo del lavoro non arriverà mai a saturazione; in realtà, le cose stanno spesso all’esatto opposto, con molti laureati pressoché impossibilitati a trovare lavoro e, dall’altro lato, datori di lavoro che potrebbero assumere ma che non trovano apprendisti o personale addestrato a svolgere particolari mestieri (tipo gli orafi, ma non solo).

  8. Giulio Dante Guerra

    Un problema che né l’intervistatore né l’intervistato hanno affrontato è quello della distruzione degli istituti tecnici, avvenuta negli anni a cavallo del 1970. Prima la “contestazione globale” del “sessantotto”, con gli studenti, che, dopo un anno scolastico in cui avevano fatto più ore di occupazione che di lezione, esigevano da insegnanti terrorizzati la “promozione politica”. Poi, ciliegina sulla torta, la riforma dell’esame di stato, di fatto uguale per tutte le scuole medie superiori, senza distinzione fra licei e istituti tecnici, esame in cui si richiedeva al candidato solo una generica “maturità”, praticamente in funzione solo dell’iscrizione all’università, senza nessuna reale verifica della formazione professionale, che, invece, le industrie avrebbero richiesto, p.es., ai periti. Così le facoltà tecnico-scientifiche furono ingolfate dai periti, che, a causa della loro impreparazione, non trovavano lavoro nelle industrie, e si iscrivevano all’università solo per riscuotere il “presalario”, improvvidamente esteso a tutti, senza selezione meritocratica. Ho constatato di persona questo fatto, dato che dal 1970 al 1974 ho fatto le esercitazioni di chimica agli studenti di ingegneria meccanica e areonautica dell’università di Pisa. Può darsi che più recentemente le cose siano state un po’, come dire, “riarrangiate”; ma non troppo, visto che hanno inventato la “laurea breve”, come “surrogato” del vecchio diploma dell’ITI….

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