L’unica notizia che conta
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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – È bene precisare, come fa Gerolamo Fazzini nell’introduzione, che questo libro non è stato scritto per «esaltare o, peggio, mitizzare» padre Piero Gheddo. Ma quello che è giusto è giusto, perciò: grande padre Gheddo. Inviato speciale ai confini della fede sarebbe di per sé l’autobiografia del più importante giornalista italiano vivente, visto che questo missionario del Pime si è girato ottanta paesi extraeuropei, ha scritto letteralmente migliaia di articoli per alcune tra le più importanti testate cattoliche e laiche del nostro paese, ha firmato a occhio e croce un centinaio di libri, molti dei quali tradotti in più lingue, è stato testimone diretto, “in prima linea” come si dice, di molte delle enormi tragedie che hanno sconvolto l’ultimo mezzo secolo, dalla guerra in Vietnam all’apartheid in Sudafrica, dal genocidio in Cambogia a quello in Ruanda, dalla rivoluzione comunista di Cuba alle dittature militari in Sudamerica, solo per citarne alcune.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]E perché, invece, un cronista del genere non è venerato come un guru del quarto potere? Perché fondamentalmente padre Gheddo ha trascorso sessanta e passa anni di missione a inseguire una sola notizia. L’unica che valesse la pena di essere inseguita. Quella che sfugge regolarmente a tutti i colleghi. La notizia: Gesù Cristo. Il Suo impatto sulle persone, sui popoli, sulla storia. È andato a cercarlo sotto le bombe e tra gli affamati. È andato a pescarlo in mezzo alla foresta amazzonica, fin dentro alla capanna sperduta di un missionario quasi eremita.
È un pioniere, padre Gheddo. Da tempo ha intuito verità e osservato fenomeni di cui nemmeno oggi “la civiltà” sembra ancora rendersi conto, ha scritto cose che a noi serviranno molti anni per arrivare solo ad ammettere. Già negli anni Cinquanta, per esempio, avvertiva che l’Africa si stava ribellando a “mamma” Europa, e che si sarebbe salvata, letteralmente, solo convertendosi. Perché se c’è una cosa di cui Gheddo può dire di avere le prove, è che il progresso dell’uomo inizia grazie all’incontro con Cristo, non all’elemosina dei ricchi. Il cronista del Pime lo ha visto succedere mille volte sotto i suoi occhi, nel libro ci sono decine di episodi. Le persone «sentono la diversità fra vivere con Cristo e vivere senza Cristo. Questo li rende entusiasti e pronti a fare grandi sacrifici per servire la Chiesa», gli ha detto una volta un missionario nel Borneo.
Commovente la storia del «villaggio paria» di Beddipally, India, anno 1964. Per padre Gheddo era «il mio primo e forse unico “Battesimo di massa”: 190 catecumeni da battezzare fra grandi e piccini (62 li ho battezzati io)». Recatosi là con altri due missionari e quattro suore, trovò il «povero villaggio di capanne di paglia e di fango» tutto quanto «in festa, i paria raggianti di gioia: danze, canti, pifferi, flauti, tamburelli, festoni di carta colorata alle porte e alle finestre». Peccato che «i non cristiani dei villaggi vicini, gente di casta e proprietari terrieri», non vedessero di buon occhio il “balzo in avanti” dei diseredati, e il giorno dopo, all’alba, «armati di bastoni hanno picchiato tutti, uomini, donne, vecchi, bambini; poi hanno distrutto numerose capanne e sporcato i muri della cappella-sala comunitaria». I missionari si offrirono di denunciare l’accaduto alla giustizia, ma si sentirono rispondere così: «Padre, noi non vogliamo vendetta. Tu ci hai detto che il Battesimo è il più grande dono di Dio e che la Croce è il segno di chi segue Cristo. Ecco, noi vogliamo soffrire qualcosa in silenzio per ringraziare Dio del Battesimo. Non andare dal giudice, aiutaci e ricostruiremo tutto noi, ma senza chiedere punizione per i nostri persecutori. Non ci hai detto tu che dobbiamo perdonare le offese ricevute, come ha fatto Gesù?».
In un mondo che si crede progredito e invece è sempre più inselvatichito, la notizia di Cristo servirebbe più del pane. Quante volte lo ha ripetuto padre Gheddo, anche su Tempi, pieno di dolore quando invece tanti missionari preferiscono dedicarsi all’acqua pubblica. «A dispetto di molti drammi nel mondo, divento sempre più ottimista per il futuro», dice. «Vedo gli sterminati popoli che devono ancora ricevere l’annunzio della “buona novella” e soffro per l’indifferenza di troppi cristiani di fronte al problema primario: portare l’annunzio di salvezza a tutti gli uomini. Ma vedo anche con chiarezza che Gesù Cristo col suo Vangelo è sempre più l’unica via di salvezza per tutti».
Ha dato fastidio padre Gheddo? Certo che lo ha dato. Innanzitutto agli stessi cattolici. Come quando, nel 1972, pubblicò su Mondo e Missione il celebre servizio “A scuola dalle giovani Chiese”. «Le molte lettere ricevute – ricorda il sacerdote – esprimevano in maggioranza sconcerto e anche scandalo per quel titolo e i contenuti dello studio: pareva impossibile che noi, dopo duemila anni di cristianesimo, dovessimo andare a scuola da giovani cristiani senza alcuna esperienza di fede, di vita cristiana, di teologia, di esegesi biblica. Credo che oggi siamo un po’ tutti convinti che le giovani Chiese possono insegnarci molto. Non perché i battezzati delle missioni siano migliori cristiani di noi. Forse sono più peccatori di noi; ma è altrettanto certo che a noi manca l’entusiasmo della fede e lo spirito missionario che loro hanno. Cosa potrebbero insegnarci? Anzitutto questo: bisogna ripartire dall’annunzio di Cristo, in modo semplice, elementare, esperienziale, molto concreto».
Padre Gheddo scandalizza perché racconta quel che vede. Senza arzigogoli, scrive pane al pane. Ha il coraggio di riconoscere i frutti insperati prodotti dalla teologia della liberazione in America latina perché ne è stato testimone sul campo, pur non smettendo mai di ricordare i danni prodotti da chi ha ridotto la fede cattolica alla continuazione della lotta di classe con altri mezzi. Ha contribuito a “sdoganare” nella Chiesa Hélder Câmara, il “vescovo delle favelas” di Olinda e Recife, Brasile. Durante il Concilio Vaticano II padre Gheddo, «impressionato» dalla potenza di quella personalità, ottenne con lui un’intervista per l’Osservatore Romano, che però finì censurata, essendo all’epoca il prelato brasiliano in odore di marxismo. Oggi Gheddo, che nel frattempo quella intervista l’ha pubblicata in un libro, parla con nonchalance della censura subìta e spiega: sono sempre stato convinto che Camara fosse «strumentalizzato dalle sinistre marxiste» interessate a metterlo contro la Chiesa, quando invece era un vero «uomo di Dio». Attualmente è in corso per lui una causa di beatificazione.
Ma Gheddo ha dato fastidio soprattutto a tanti colleghi giornalisti e intellettuali, ostinato com’è nel raccontare quel che vede invece di quel che “deve”. Svelò la menzogna genocida dei khmer rossi in Cambogia, voce quasi unica in un’Italia di piombo dove «non solo non si poteva credere ai crimini comunisti, ma non li si poteva nemmeno raccontare». Tra l’altro si beccò per questo gli attacchi di Tiziano Terzani e l’accusa di essere pagato dalla Cia da parte dell’Unità. Considerato fino ad allora un progressista, divenne «reazionario» e «fascista». Forse perché il suo interesse esclusivo per la verità gli ha levato anche ogni indugio ad ammettere gli errori. Nel libro riconosce di essersi lasciato mezzo abbagliare dalla rivoluzione culturale in Cina, per poi scoprire il vero volto del regime maoista. Anche a Cuba nel 1970 fu costretto dai fatti a rivedere un giudizio quasi positivo sulla revolución castrista. Ovviamente per questo subì «insulti e minacce», ricorda, «ma a me basta sapere che dico la verità di quel che ho visto».
«Noi preghiamo, gli altri zitti»
Negli stessi anni, comprese prima degli altri che razza di regime stavano instaurando i vietcong. Mentre nelle piazze italiane riecheggiavano i salaci inni sessantottini a Ho Chi Minh, padre Gheddo riusciva a inoltrarsi «vestito da prete» in zone del Vietnam che i cronisti occidentali, dagli alberghi di Saigon, nemmeno si sognavano di raggiungere. Nelle missioni cattoliche il sacerdote del Pime sentiva fischiare proiettili e schegge di bombe sulla testa, e scopriva che «nessuno voleva essere “liberato” dai vietcong».
La prima autobiografia di padre Gheddo è un grande libro di avventure. «La mia missione è stata e ancora è un giornalismo appassionato e militante», scrive lui. 87 anni di età, 63 di sacerdozio desiderato fin da bambino, una vocazione alla missione «infiammata» dai racconti di padre Clemente Vismara pubblicati su Italia Missionaria, e anche un po’ da Sandokan, padre Gheddo è uno che nel 1959 sale su un aereo «carico di turisti italiani» diretto a Milano da Londra, e nel mezzo di una tempesta, mentre a bordo è in corso una scena di panico apocalittico, quasi strappa di mano alla hostess il microfono e grida: «Sono un sacerdote missionario, ho anch’io paura come voi e forse più di voi. Il comandante ci assicura che l’aereo è sicuro, ma forse ci dà maggior sicurezza sapere che siamo tutti nelle mani di Dio. Chi vuole pregare, preghi con me, gli altri facciano silenzio: “Padre nostro che sei nei cieli…”».
Da don Luigi Giussani dice di avere imparato il concetto che «se la fede in Cristo non crea, oltre che un “uomo nuovo” in noi, una “cultura nuova” e un “mondo nuovo”, non conta nulla». Il fondatore di Cl, ricorda Gheddo, «metteva con forza, noi ragazzi e giovani preti, di fronte alla bellezza e alla forza della fede, ma anche alla responsabilità di aver ricevuto da Dio questo dono di cui tutti hanno bisogno. (…) Non avevo mai sentito una testimonianza così appassionata di quello che significa il mio essere cristiano e prete».
L’incontro con Madre Teresa
A Madre Teresa dedica un intero capitolo. Se l’opera della piccola suora albanese in favore degli ultimi fra gli ultimi è diventata così famosa, in parte è merito di padre Gheddo, che era entrato al Pime sognando di essere destinato proprio all’India. È stato uno dei primi giornalisti in assoluto a incontrare a Calcutta le Missionarie della Carità. Scrive: «Talvolta per dialogare con le religioni si tende a mettere in ombra la persona di Cristo, uomo-Dio morto in Croce per salvare l’umanità, perché Cristo “fa difficoltà”. Si preferisce parlare di “valori” del Vangelo (pace, perdono, dignità di ogni uomo, giustizia, solidarietà). Si predica il messaggio tacendo del messaggero, si parla del Regno ignorando il Re. Tutto questo rischia di ridurre l’evangelizzazione a un’attività sociale e caritativa. Madre Teresa va controcorrente. La sua vita e quella delle suore testimoniano la fede in Cristo contemplato nell’Eucaristia, amato come un fratello in ciascuno dei poveri. A chi le chiedeva il senso del suo impegno per i poveri diceva: “Noi non siamo assistenti sociali, noi ci muoviamo per Cristo che sulla Croce dice: ‘Ho sete!’. La missione quindi, prima di essere opere di bene da fare, è partecipare alla “sete” di Gesù e rendere presente il suo amore per ogni uomo”. Questo ritorno all’essenziale della missione attira molto i giovani. Madre Teresa dimostra che c’è una straordinaria convergenza e consonanza fra Cristo e il senso dell’umano, al di là di ogni razza, lingua, età, religione e cultura. Ogni uomo, conoscendo Madre Teresa, capisce e sente che in lei c’è tutto quello a cui lui aspira, capisce che lì c’è Dio. E ogni uomo, anche quelli che si dichiarano atei (e non lo sono), aspira a conoscere Dio».
Ora che ha una certa età, il più grande giornalista italiano è costretto a rinuciare ai suoi viaggi. Scrive ancora, ma la sua missione adesso non è più girare il mondo, è darci dentro con la preghiera. Ha scritto a Tempi qualche giorno fa: «Capisco che il buon Dio mi vuole ancora un po’ attivo, dato che posso pregare, soffrire (“La sofferenza è la forma più alta della preghiera”, diceva il venerabile Marcello Candia), scrivere e parlare». Invia regolarmente a questo giornale suoi contributi e testimonianze raccolte dai colleghi del Pime sparsi nel mondo. Ogni volta si impara una cosa nuova. Ogni volta è una notizia. Anzi, la notizia. Grande padre Gheddo.
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