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Genocidio armeno, il Grande Male

Dopo anni di silenzio, grazie anche all'Italia si è cominciato a parlare e a conoscere il genocidio armeno. Storia di uno sterminio con oltre un milione di vittime innocenti

Antonia Arslan
02/05/2017 - 1:00
Cultura
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ARMENI

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Quando Daniel Varujan – il grande poeta armeno barbaramente ucciso il 26 agosto 1915 – fu arrestato nella notte del 24 aprile insieme all’élite della minoranza armena di Costantinopoli, non aveva nessun sospetto del destino che l’aspettava. Insieme agli altri, gli toccò affrontare una deportazione senza preavviso verso una destinazione sconosciuta, prima caricati su un treno, poi su carri per strade infernali, per arrivare infine nella minuscola cittadina rurale di Chankiri. Là credettero di essere relativamente al sicuro: in esilio, ma vivi, e con la possibilità di ricevere lettere e sostegno da parenti ed amici rimasti nella capitale. Si inserirono nella vita locale, formarono circoli, giocavano a tric-trac, avevano il loro caffè; qualcuno addirittura fu rilasciato e poté tornare a casa.

Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome
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Era solo la quiete minacciosa prima della tempesta. Come in un infernale gioco di scacchi le loro vite vennero prese un po’ alla volta, capricciosamente, secondo gli ordini che venivano da Costantinopoli, dall’onnipotente ministro degli Interni Talaat, nel quale i loro supplichevoli e disperati telegrammi suscitavano – è lecito crederlo – una perversa soddisfazione. Ma Varujan, raccontano le testimonianze dei pochi superstiti, si distingueva perché continuava a lavorare, a scrivere incessantemente. Ricorderà molti anni dopo uno di loro, Mikayel Shamadanjian:

Varujan era il più taciturno e appartato membro del nostro gruppo. Si preoccupava solo di scrivere. Una volta, in uno dei giorni più angosciosi, mi lesse alcuni sonetti, e io non potei che esprimergli la mia ammirazione e il mio stupore che, in momenti così terribili come quelli che stavamo vivendo, fosse in grado di mantenere la sua anima così distaccata e incorrotta da creare una poesia dedicata alla natura con una tale profondità. Mi rispose che riusciva ad arrivare a quell’intima pace grazie alla fede che nutriva nel futuro della nazione armena. Ah, perché non gli è stato concesso di vedere realizzarsi la sua speranza?

Quei quaderni fittamente coperti di scrittura scomparvero, scrive un altro, Aram Andonian, con straziante ironia:

Varujan, l’unico fra noi che continuava a lavorare (aveva già scritto sei quaderni di versi) voleva raccontare la storia di Yerevoum [un contrabbandiere di tabacco], facendone l’eroe di una ballata epica. Non so se poi abbia avuto il tempo di scrivere quella poesia. Ma a che cosa sarebbe servito, comunque? Il giorno del suo martirio, gli assassini si impadronirono dei miseri bagagli di Varujan e dei suoi quattro compagni. […] E molto probabilmente il suo vero tesoro, i sei quaderni che aveva scritto a Chankiri, fu buttato al vento. Ma si può pensare che Dishleg Hussein Agha, proprietario del khan davanti al quale vennero uccisi, uno dei testimoni del crimine, li abbia raccolti con cura, e poi, dopo aver lisciato e messo in ordine le pagine, li abbia perforati con uno spago per incartare formaggio e olive per i suoi clienti…

Affondati nell’oscurità
Invece il Canto del pane sopravvisse, ritrovato in modo rocambolesco e pubblicato postumo: un’opera di altissima poesia, che segna il momento più alto di una reciproca fruttuosa influenza fra Oriente e Occidente, che si intreccia magicamente nei versi cristallini di questo poemetto incompiuto. Echi di Leopardi e Manzoni e dei poeti decadenti, la fede dei suoi padri ritrovata e le atmosfere dei suoi anni a Venezia raggiungono un punto di fusione allucinata e serena che fa ben comprendere quale tragica ampiezza abbia raggiunto la distruzione operata dal genocidio, non solo eliminando gli armeni dalla terra natale, ma bloccando per sempre lo sviluppo della loro cultura e di quell’effimero “rinascimento” (Zartonk) che prometteva la fioritura di ingegni e di creatività degli anni fra il 1900 e il 1915. Il futuro sviluppo della nazione armena che sognava Varujan è stato compromesso per sempre, e noi siamo qui dopo cento e più anni a cercare di comprenderne le cause.

È vero che da una dozzina d’anni l’interesse per la “questione armena” è molto cresciuto in Italia. Convegni, mostre, dibattiti, articoli in giornali e riviste hanno esplorato la tragedia del 1915-1922 (il Metz Yeghern, il “Grande Male”), ma anche la grande civiltà e la cultura armena in molti dei suoi aspetti più originali. L’empatia e la solidarietà dimostrata dagli italiani verso questo popolo vittima del primo genocidio del Ventesimo secolo sono state straordinarie, soprattutto se teniamo conto dell’esiguità della comunità armena risiedente nel nostro paese, che si valuta in poche migliaia di persone, meno delle dita di una mano.

L’attenzione è cresciuta anno dopo anno. Dopo il successo dei libri che raccontano alcune delle terribili e drammatiche storie di quel periodo, come Pietre sul cuore di Alice Tachdjian o la mia Masseria delle allodole (col film dei fratelli Taviani che ne è stato tratto), e naturalmente la ristampa del capolavoro di Franz Werfel, I quaranta giorni del Mussa Dagh, si è sviluppata in molti la viva curiosità di comprendere come mai – per circa sessant’anni – questo popolo e il suo tragico destino fossero affondati nell’oscurità, tanto che le parole stesse “Armenia” e “armeni” erano diventate ignote ai più (non dimenticherò mai l’equivoco di un volenteroso assessore che aveva scambiato “armeni” con “rumeni”…).

Il Parlamento italiano è stato fra le prime istituzioni politiche mondiali a riconoscere il genocidio armeno, e non è un caso. Gli italiani sono fra i viaggiatori più assidui ed entusiasti nell’attuale Armenia indipendente: e neanche questo è un caso. Un gruppo di professori di scuola superiore – tutti italiani – hanno ottenuto che finalmente all’interno delle pagine dedicate dai manuali di storia alla prima guerra mondiale venisse inserita qualche informazione sul massacro di oltre un milione di vittime civili innocenti in Anatolia: e neppure questo possiamo ritenerlo un caso. Il fatto è che il lungo “silenzio assordante” sulla questione armena stimola una percezione di ingiustizia sofferta; e rinasce l’antica simpatia verso un popolo che con l’Italia ha avuto legami antichissimi.

Senza la conoscenza di quegli avvenimenti, di ciò che questo genocidio ha rappresentato nello svolgersi della storia del Novecento, il quadro storico generale risulta manchevole o falsato, anche in rapporto all’invenzione del termine stesso “genocidio” da parte del giurista ebreo polacco Raphael Lemkin (che in una celebre intervista affermò di essersi occupato prima di tutto della tragedia armena) e al collegamento sempre più evidente fra il Metz Yeghern armeno e la Shoah ebraica.

Rimozione spensierata
È giusto ricordare infatti che furono proprio alcuni grandi ebrei ad essere fra i primi a testimoniare la tragedia armena – e a collegare la responsabilità del governo dei Giovani Turchi con la Germania imperiale loro alleata – come se fossero stati colpiti, oltre che dalla pietà per le vittime, dal funesto presentimento che l’accurata organizzazione dello sterminio e la sistematicità di esecuzione potessero ben presto diventare un modello da imitare: mi riferisco al diplomatico russo André Mandelstam, a quelli americani Henry Morgenthau e Lewis Einstein, ai fratelli Sarah, Alex e Aaron Aaronsohn (i loro scritti si possono trovare in Pro Armenia. Voci ebraiche sul genocidio armeno, pubblicato recentemente da Giuntina).

Un capitolo a parte meriterebbero l’indifferenza o l’aperta ostilità dimostrate davanti alle sventurate carovane dei deportati armeni avviati alla morte dagli ufficiali e dai soldati tedeschi, di cui esistono molte angosciose testimonianze. Sicché oggi non si può continuare, se si vuole veramente affrontare la mala bestia del negazionismo, nella «rimozione spensierata di una storia insopportabile» (come ha scritto rav Laras), quella del genocidio armeno, per tante vie, sotterranee e palesi, così profondamente legata alla Shoah ebraica.

Antonia Arslan è una scrittrice

Foto tratta da “Metz Yeghern. Mostra fotografica sul genocidio armeno al memoriale della Shoah”. Dal 27 aprile al 24 maggio, piazza Safra 1, Milano

Tags: antonia arslanarmenigenocidio armeniTurchia
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